L’impatto dei “periodi di riavvicinamento” sui casi di stalking


Cosa succede se durante il protrarsi di condotte persecutorie, vittima e aguzzino ripristinano i rapporti? Quali conseguenze per il procedimento penale?
L’impatto dei “periodi di riavvicinamento” sui casi di stalking

La casistica conferma che il reato di stalking si consuma più frequentemente “tra le mura domestiche” o comunque nell’ambito di una cerchia relazionale particolarmente ristretta. Non a caso è stata inserita la previsione codicistica di cui al comma 2 che aggrava il reato (e quindi aumenta la pena) “se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.

Ma se da un lato, la sussistenza di relazioni affettive incide sulla gravità della condotta ed anche sulla potenziale lesività della stessa (atteso che una persona amica/familiare conosce attività, abitudini e debolezze della vittima ben più di ogni altra persona estranea alla cerchia relazionale), dall’altro è nella natura stessa di tali rapporti, l’aver un andamento “altalenante” e discontinuo, caratterizzato da corsi e ricorsi, avvicinamenti e allontanamenti.

La componente affettiva, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nella determinazione alla denuncia: è questo il motivo per il quale il legislatore ampliava da 3 a 6 mesi il termine per la proposizione della querela, consentendo alla persona offesa di addivenire ad una scelta ponderata, nella consapevolezza delle conseguenze ad essa collegate, anche in termini di impegno emotivo. Occorre, infatti, ricordare che tra la proposizione della denuncia querela e l’inizio del processo penale (inteso come fase dibattimentale innanzi ad un Giudice) può decorrere un tempo non proprio breve, durante il quale, nella prassi giudiziaria, si è spesso assistito a “mutamenti di scenario”. Nei casi più fortunati, la situazione emergenziale si ricompone prima dell’inizio o della fine del processo penale, ma in molti altri casi, si assiste a momenti di oscillazione relazionale suscettibili di incidere sull’esito del procedimento, perché considerati una forma di “consenso della vittima” rispetto alle attenzioni (sgradite?) dell’imputata/o.

A questo punto occorre distinguere tra 3 diversi tipi di “consenso della vittima” per comprendere l’impatto degli stessi sull’esito del processo.

1) Una prima ipotesi di consenso potrebbe essere rappresentato da una vera e propria “autorizzazione” alla compressione della propria libertà fisica/psichica/morale. L’autodeterminazione fisica, psichica e morale rientra nel novero dei diritti disponibili dell’individuo e, pertanto, è suscettibile di limitazione consensuale. Questa ipotesi, raramente verificatasi, è comunque del tutto incompatibile con la prosecuzione della azione penale, perché dimostra una specie di volontà di essere molestato/a o perseguitato/a. Il processo deve concludersi con il pieno proscioglimento dell’imputato/a.

2) Ben più frequente è invece il verificarsi di “periodi di riavvicinamento” tra le parti. Ciò soprattutto quando il reato si esplica tra soggetti legati da relazione sentimentale, tra i quali è più forte e frequente il bisogno di ripristinare un rapporto sociale genuino, non conflittuale. La Corte di Cassazione si è più volte espressa (ad esempio nella sentenza 46165/2019) ritenendo ininfluente sulla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, il verificarsi di momenti transitori di pacificazione tra le parti che non interrompono, però, la abitualità delle condotte. Occorre, cioè, che nonostante tali periodi più o meno lunghi, le condotte persecutorie non siano cessate del tutto. Ovviamente durata ed intensità di tali riavvicinamenti sono comunque oggetto di attenzione da parte del Giudice, che li dovrà valutare ai fini del saggio di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa. Occorrerà spiegare in maniera diffusa la ratio di tali periodi e, soprattutto, dimostrare che si è trattato solo di brevi parentesi di sereno in un contesto di vita altrimenti mortificante, in cui permaneva tanto il timore per la propria o altrui incolumità quanto il costringimento alla variazione delle proprie abitudini di vita. Occorre dimostrare, cioè, che tali momenti non hanno interrotto la permanenza di uno dei presupposti alternativamente richiesti per integrare il reato di atti persecutori.

3) La casistica ci pone di fronte ad una terza possibilità di “consenso della vittima”  o, più propriamente, ad una frammentazione del consenso, limitatamente a determinate condotte. Ad esempio il denunciante potrebbe prestarsi a lunghe conversazioni telefoniche o telematiche, a scambi di sms, messaggi whatsapp, interlocuzioni sui social network… In queste ipotesi, il reato potrebbe essere derubricato in quello ben più lieve di molestie e, per questa via, essere soggetto alla possibile applicazione della scriminante di cui all’art. 50 c.p. del “consenso dell’avente diritto”. In casi del genere occorrerà fare attenzione alle effettive condotte coperte dal consenso, laddove non si può dimenticare la natura abituale del reato di stalking. Anche in questo caso, come nel precedente, la ondivaga posizione del denunciante rispetto alle condotte dell’aguzzino, impone al Giudice un severo vaglio di attendibilità e una più rigorosa verifica della effettiva creazione di quel malessere fisico/psichico previsto dalla norma per l’integrazione del reato in esame.

Ad oggi è possibile affermare che, se da un lato la fisiologica presenza di momenti di pacificazione tra le parti non incide automaticamente sulla prosecuzione del processo penale, dall’altro essa grava il Giudice di un pregnante onere di verifica della attendibilità della vittima, che può condurre ad una rivalutazione sulla sussistenza delle condizioni di ansia, timore e costrizione, necessarie ad integrare il reato di atti persecutori.

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di Avv. Francesca Pengo

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