L’impiego dei lavoratori italiani all’estero
Dal 24 settembre 2015 non è più richiesta l'autorizzazione preventiva ministeriale per l'impiego all'estero di personale da parte delle aziende

In premessa, giova ricordare che, dal 24 settembre 2015, non è più richiesta l'autorizzazione preventiva ministeriale per l'impiego all'estero di personale da parte delle aziende, a seguito dell'entrata in vigore del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n.151 (Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Per quanto riguarda lo Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa, possiamo individuare tre macro-aree geografiche:
1) Paesi dell’Unione europea;
2) Paesi extra-UE con i quali esiste una convenzione;
3) Paesi extra-UE privi di convenzione.
Il principale aspetto da considerare attiene alla legislazione applicabile al lavoratore, specie con riferimento alla copertura assicurativa di competenza.
All’interno dell’UE esiste, come noto, il principio di libera circolazione del lavoro e dei lavoratori. A seguito, inoltre, di particolari accordi sottoscritti tra alcune nazioni e la stessa Unione europea, detto principio si applica anche a: Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Svizzera. Orbene, onde evitare l’insorgere di conflitti di legge, i regolamenti CEE stabiliscono che al lavoratore si debba applicare una sola legislazione, e precisamente quella del Paese di occupazione (territorialità).
Per quanto concerne la seconda macro-area, è necessario fare sempre riferimento alla convenzione in vigore. Gli schemi convenzionali richiamano (nella stragrande maggioranza dei casi) il modello OCSE; fatta eccezione per i trattati in essere con i c.d. Paesi Emergenti che, in genere, adottano lo schema di convenzione dettato dall’ONU. Invero, i due modelli convenzionali, quanto meno nelle questioni di sostanza, non divergono molto fra loro. In ogni caso, meglio valutarne i contenuti prima di iniziare qualunque attività, in modo tale da conoscere determinate fondamentali sfaccettature costituenti il rapporto, quali quelle connesse alla residenza fiscale e agli eventuali differenti aspetti di carattere previdenziale.
Occorre, infatti, ricordare che la normativa contenuta nelle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni prevale rispetto a quella fiscale interna; per cui la tassazione è esclusiva nello Stato di residenza fiscale del lavoratore.
Cionondimeno, il datore di lavoro italiano, che - in ipotesi - ha distaccato un lavoratore all’estero che non risulta più residente fiscale in Italia, dovrà comunque rilasciare la Certificazione Unica, indicando l’importo dei redditi prodotti all’estero.
Come noto, il reddito derivante dall’attività prestata all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro, da dipendenti che nell’arco dei dodici mesi ivi soggiornano per un periodo superiore ai 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali. Detti importi vengono rideterminati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze).
Ovviamente, nell’ipotesi in cui un lavoratore, per ragioni inerenti l’attrazione della residenza in Italia ai soli effetti fiscali, venga assoggettato, sul reddito prodotto all’estero, a una duplice imposizione, lo stesso avrà diritto a un credito d’imposta, in base alle regole stabilite all’art. 165 del TUIR. In ogni caso, qualora il reddito fosse stato prodotto in più Stati Esteri, l’ammontare relativo a ciascuno di tali Paesi dovrà essere regolarmente e distintamente indicato nelle annotazioni del citato Modello CU; sempre in tale certificazione, si dovranno altresì dedurre gli eventuali crediti d’imposta.
Con riferimento, infine, ai Paesi extra-UE non convenzionati, è evidente che, non esistendo una regolamentazione a carattere sovranazionale, la tutela è praticamente inesistente e occorre una dettagliata analisi della normativa locale e dei connessi rischi lavorativi, Paese per Paese.
Concluso questo incipit, passiamo ora al principale argomento oggetto del presente contributo e procediamo con l’analisi dei differenti aspetti delle strutture contrattuali tramite le quali può venire svolta l’attività all’estero da parte del personale dipendente delle imprese italiane; ovverossia: la trasferta, il trasferimento e il distacco.
La trasferta
La trasferta consiste nel mutamento provvisorio e temporaneo del luogo di lavoro, per il sopravvenire di esigenze di servizio di carattere transitorio e contingente, che rendono necessario od opportuno lo spostamento del lavoratore dal luogo ove svolge normalmente l’attività; ferma restando la previsione certa del suo rientro nella sede originaria.
Gli elementi da considerare nella trasferta, dunque, sono:
- temporaneità
- disposizione unilaterale del datore di lavoro
- svolgimento dell'attività lavorativa sotto la direzione del datore di lavoro
- indennità di trasferta
Il fatto che il dipendente venga solo temporaneamente assegnato a una diversa unità produttiva dal datore di lavoro, comporta che ciò non possa configurarsi quando lo spostamento del lavoratore implichi anche il suo cambiamento di residenza, indipendentemente dalla durata della missione, la quale nella prassi difficilmente supera i sei mesi, ma che comunque non gode di un’espressa previsione legislativa relativamente al periodo massimo.
La durata della trasferta, infatti, può anche non essere compiutamente definita fin dall’inizio, essendo naturale che sia variabile in funzione dell’interesse e/o dell’operazione decisa dal datore di lavoro. Durante questo periodo, permane un legame funzionale del lavoratore con il luogo di lavoro da cui egli proviene, rispetto al diverso luogo della provvisoria prestazione.
Lo stato soggettivo del dipendente non è rilevante, per cui non è necessario il suo consenso alla trasferta. Anzi, il rifiuto alla trasferta, in taluni casi, potrebbe essere considerato quale grave atto di insubordinazione e, come tale, passibile di licenziamento.
Non è nemmeno richiesto che l’invio del lavoratore in trasferta sia giustificato da uno specifico e attuale interesse produttivo del datore di lavoro, ben potendo, il risultato cui tende la trasferta, essere finalizzato anche al mero sviluppo di future attività (esempio: corsi di formazione per poter disporre di personale più professionale e qualificato).
Si rammenta, in ogni caso, che la mera discrezionalità del datore di lavoro incontra i limiti stabiliti dal rispetto dei contratti collettivi di riferimento, dal principio di dignità del lavoratore (art. 41 della Costituzione), nonché dal divieto di atti illeciti o discriminatori (art. 1345 Codice Civile e art. 15 Stat. Lav.). Mentre la funzionalità alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’azienda andrà comunque valutata in funzione del principio generale del "comportamento secondo correttezza", di cui all’art. 1175 del Codice Civile.
Il lavoratore in trasferta risponde gerarchicamente al proprio datore di lavoro e svolge la sua attività a esclusivo beneficio di quest’ultimo. La permanenza in una sede diversa da quella abituale è, pertanto, del tutto occasionale e contingente, e nessun tipo di rapporto intercorre tra detto dipendente e l’eventuale ulteriore specifico soggetto presso il quale la prestazione è materialmente posta in essere.
Considerato dunque l’aspetto transitorio, il lavoratore inviato all’estero rimane soggetto alla legislazione fiscale e previdenziale disciplinata in Italia. Il rimborso previsto per il lavoratore potrà allora avvenire applicando tre diversi criteri: indennità forfetaria, rimborso misto, rimborso analitico. Fermo restando che le spese di trasporto sostenute e documentate con il documento del vettore, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro, né rientrano nei massimali di diaria giornaliera.
Il trattamento fiscale dell’indennità di trasferta è disciplinato dall’art. 51, comma 5, del TUIR, il quale - per le trasferte all’estero - prevede il totale esonero dalla tassazione dell’indennità forfetaria per un importo pari a € 77,47 al giorno (gli importi superiori sono da considerarsi imponibili).
per continuare la lettura: http://paolosoro.softfobia.it/news/776/Limpiego-dei-lavoratori-italiani-allestero.html
Per quanto riguarda lo Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa, possiamo individuare tre macro-aree geografiche:
1) Paesi dell’Unione europea;
2) Paesi extra-UE con i quali esiste una convenzione;
3) Paesi extra-UE privi di convenzione.
Il principale aspetto da considerare attiene alla legislazione applicabile al lavoratore, specie con riferimento alla copertura assicurativa di competenza.
All’interno dell’UE esiste, come noto, il principio di libera circolazione del lavoro e dei lavoratori. A seguito, inoltre, di particolari accordi sottoscritti tra alcune nazioni e la stessa Unione europea, detto principio si applica anche a: Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Svizzera. Orbene, onde evitare l’insorgere di conflitti di legge, i regolamenti CEE stabiliscono che al lavoratore si debba applicare una sola legislazione, e precisamente quella del Paese di occupazione (territorialità).
Per quanto concerne la seconda macro-area, è necessario fare sempre riferimento alla convenzione in vigore. Gli schemi convenzionali richiamano (nella stragrande maggioranza dei casi) il modello OCSE; fatta eccezione per i trattati in essere con i c.d. Paesi Emergenti che, in genere, adottano lo schema di convenzione dettato dall’ONU. Invero, i due modelli convenzionali, quanto meno nelle questioni di sostanza, non divergono molto fra loro. In ogni caso, meglio valutarne i contenuti prima di iniziare qualunque attività, in modo tale da conoscere determinate fondamentali sfaccettature costituenti il rapporto, quali quelle connesse alla residenza fiscale e agli eventuali differenti aspetti di carattere previdenziale.
Occorre, infatti, ricordare che la normativa contenuta nelle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni prevale rispetto a quella fiscale interna; per cui la tassazione è esclusiva nello Stato di residenza fiscale del lavoratore.
Cionondimeno, il datore di lavoro italiano, che - in ipotesi - ha distaccato un lavoratore all’estero che non risulta più residente fiscale in Italia, dovrà comunque rilasciare la Certificazione Unica, indicando l’importo dei redditi prodotti all’estero.
Come noto, il reddito derivante dall’attività prestata all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro, da dipendenti che nell’arco dei dodici mesi ivi soggiornano per un periodo superiore ai 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali. Detti importi vengono rideterminati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze).
Ovviamente, nell’ipotesi in cui un lavoratore, per ragioni inerenti l’attrazione della residenza in Italia ai soli effetti fiscali, venga assoggettato, sul reddito prodotto all’estero, a una duplice imposizione, lo stesso avrà diritto a un credito d’imposta, in base alle regole stabilite all’art. 165 del TUIR. In ogni caso, qualora il reddito fosse stato prodotto in più Stati Esteri, l’ammontare relativo a ciascuno di tali Paesi dovrà essere regolarmente e distintamente indicato nelle annotazioni del citato Modello CU; sempre in tale certificazione, si dovranno altresì dedurre gli eventuali crediti d’imposta.
Con riferimento, infine, ai Paesi extra-UE non convenzionati, è evidente che, non esistendo una regolamentazione a carattere sovranazionale, la tutela è praticamente inesistente e occorre una dettagliata analisi della normativa locale e dei connessi rischi lavorativi, Paese per Paese.
Concluso questo incipit, passiamo ora al principale argomento oggetto del presente contributo e procediamo con l’analisi dei differenti aspetti delle strutture contrattuali tramite le quali può venire svolta l’attività all’estero da parte del personale dipendente delle imprese italiane; ovverossia: la trasferta, il trasferimento e il distacco.
La trasferta
La trasferta consiste nel mutamento provvisorio e temporaneo del luogo di lavoro, per il sopravvenire di esigenze di servizio di carattere transitorio e contingente, che rendono necessario od opportuno lo spostamento del lavoratore dal luogo ove svolge normalmente l’attività; ferma restando la previsione certa del suo rientro nella sede originaria.
Gli elementi da considerare nella trasferta, dunque, sono:
- temporaneità
- disposizione unilaterale del datore di lavoro
- svolgimento dell'attività lavorativa sotto la direzione del datore di lavoro
- indennità di trasferta
Il fatto che il dipendente venga solo temporaneamente assegnato a una diversa unità produttiva dal datore di lavoro, comporta che ciò non possa configurarsi quando lo spostamento del lavoratore implichi anche il suo cambiamento di residenza, indipendentemente dalla durata della missione, la quale nella prassi difficilmente supera i sei mesi, ma che comunque non gode di un’espressa previsione legislativa relativamente al periodo massimo.
La durata della trasferta, infatti, può anche non essere compiutamente definita fin dall’inizio, essendo naturale che sia variabile in funzione dell’interesse e/o dell’operazione decisa dal datore di lavoro. Durante questo periodo, permane un legame funzionale del lavoratore con il luogo di lavoro da cui egli proviene, rispetto al diverso luogo della provvisoria prestazione.
Lo stato soggettivo del dipendente non è rilevante, per cui non è necessario il suo consenso alla trasferta. Anzi, il rifiuto alla trasferta, in taluni casi, potrebbe essere considerato quale grave atto di insubordinazione e, come tale, passibile di licenziamento.
Non è nemmeno richiesto che l’invio del lavoratore in trasferta sia giustificato da uno specifico e attuale interesse produttivo del datore di lavoro, ben potendo, il risultato cui tende la trasferta, essere finalizzato anche al mero sviluppo di future attività (esempio: corsi di formazione per poter disporre di personale più professionale e qualificato).
Si rammenta, in ogni caso, che la mera discrezionalità del datore di lavoro incontra i limiti stabiliti dal rispetto dei contratti collettivi di riferimento, dal principio di dignità del lavoratore (art. 41 della Costituzione), nonché dal divieto di atti illeciti o discriminatori (art. 1345 Codice Civile e art. 15 Stat. Lav.). Mentre la funzionalità alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’azienda andrà comunque valutata in funzione del principio generale del "comportamento secondo correttezza", di cui all’art. 1175 del Codice Civile.
Il lavoratore in trasferta risponde gerarchicamente al proprio datore di lavoro e svolge la sua attività a esclusivo beneficio di quest’ultimo. La permanenza in una sede diversa da quella abituale è, pertanto, del tutto occasionale e contingente, e nessun tipo di rapporto intercorre tra detto dipendente e l’eventuale ulteriore specifico soggetto presso il quale la prestazione è materialmente posta in essere.
Considerato dunque l’aspetto transitorio, il lavoratore inviato all’estero rimane soggetto alla legislazione fiscale e previdenziale disciplinata in Italia. Il rimborso previsto per il lavoratore potrà allora avvenire applicando tre diversi criteri: indennità forfetaria, rimborso misto, rimborso analitico. Fermo restando che le spese di trasporto sostenute e documentate con il documento del vettore, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro, né rientrano nei massimali di diaria giornaliera.
Il trattamento fiscale dell’indennità di trasferta è disciplinato dall’art. 51, comma 5, del TUIR, il quale - per le trasferte all’estero - prevede il totale esonero dalla tassazione dell’indennità forfetaria per un importo pari a € 77,47 al giorno (gli importi superiori sono da considerarsi imponibili).
per continuare la lettura: http://paolosoro.softfobia.it/news/776/Limpiego-dei-lavoratori-italiani-allestero.html
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