L'incontro con lo straniero nella pratica clinica


E' possibile per uno psicologo costruire una relazione di fiducia e fornire un aiuto ad un paziente proveniente da una cultura diversa dalla sua?
L'incontro con lo straniero nella pratica clinica
La cultura in cui nasciamo e viviamo influenza ogni ambito della nostra vita. Il nostro linguaggio, i valori, le abitudini, la gestualità, le relazioni, le tradizioni, le concezioni della vita e del mondo sono tutti derivati dalla cultura a cui apparteniamo. Essa struttura anche in nostro funzionamento psichico, la nostra capacità di pensare e percepire il mondo in modo differente rispetto a persone che appartengono a culture diverse (Cattaneo, 2006).
Al giorno d'oggi, gli psicologi e tutti gli operatori della cura nei loro contesti di lavoro entrano inevitabilmente in contatto con persone provenienti da Paesi e quindi culture diverse, che costringono a ridefinire il setting, i metodi e gli strumenti usati e ad interrogarsi sul come poter stabilire con questi pazienti una relazione di fiducia. La stessa pratica clinica dovrebbe quindi aprirsi ad un universo "transculturale". In tale cornice, i principi della clinica transculturale, derivati dal lavoro degli studiosi della scuola francese, risultano essenziali. Essi sono: 1. l'universalismo psichico, secondo cui tutti gli esseri umani sono uguali ed hanno pari dignità; 2. la cultura concepita come "pelle" e "involucro, come struttura specifica di origine esterna che contiene e rende possibile il funzionamento dell'apparato psichico; 3. le differenze culturali, secondo cui ogni individuo declina in modo assolutamente unico e personale gli aspetti della cultura con cui entra in contatto, costruendo la sua endocultura soggettiva (Nathan, 1996).
Come si può costruire una relazione d'aiuto con un paziente straniero?
Come suggerisce Maria Luisa Cattaneo (2006), il rischio a cui sono esposti gli operatori dei servizi di cura è duplice: da un lato, siccome l'incontro con l'altro genera sempre una certa quota di angoscia, ci si può difendere riducendolo ad uno stereotipo, evitando il confronto, generalizzando le informazioni che si possiedono sulla sua cultura e ponendolo "a debita distanza"; dall'altro lato, il clinico può invece cercare in tutti i modi di omologare a se stesso, alle sue categorie, ai suoi valori ciò che non è omologabile. Quando si incontra una persona che viene da un altro Paese gli edifici culturali non sono più condivisi e ciò che spesso rimane implicito può rappresentare un ostacolo alla comunicazione, ma anche un'opportunità di arricchimento reciproco (Ielasi, 2007).
Il compito principale di ogni operatore è quindi capire come il proprio intervento si possa inserire in quella situazione specifica, in quella cultura specifica, per quella persona nel momento che sta vivendo. Questo non sempre è semplice, poiché l'incontro con una persona di una cultura diversa attiva dinamiche molto complesse. Nella relazione con la persona straniera la sospensione del giudizio riveste un ruolo fondamentale: non possiamo permetterci di etichettare la sofferenza che il paziente ci porta come "magia", "superstizione", "arretratezza" ma dobbiamo invece riconoscerla come una rappresentazione "altra", "diversa" ma con uguale dignità rispetto alle nostre. E’ importante tenere presente che lo stesso termine "malattia" o il "prendersi cura" possono avere significati diversi così come la relazione a due tra terapeuta e paziente può non essere contemplata in certe culture (Cursio, 2013). Inoltre, un altro concetto fondamentale da tenere in considerazione è quello del trauma migratorio: l'esperienza migratoria comporta inevitabilmente un'interruzione del rapporto di scambio e rafforzamento reciproco tra la cultura di appartenenza e la propria endocultura e si può configurare quindi come un vero e proprio trauma, poichè impedisce di mantenere viva la capacità del sistema culturale interno di orientarsi nel mondo (Cattaneo, 2006). Questo può accadere spesso in quelle persone che sembrano essersi adattate molto velocemente alla nuova cultura di accoglienza, assimilandone i valori a scapito di un accantonamento o di una svalutazione della loro cultura di origine (Cattaneo, 2006).
Georges Devereux, fondatore dell'etnopsichiatria, afferma che «lavorare sul crinale tra culture diverse implica un'oscillazione continua tra l'approccio psicologico e quello antropologico» (Devereux in Moro, 2001), quindi per comprendere il discorso del paziente servono almeno due registri interpretativi: il registro antropologico è infatti indispensabile per cogliere gli aspetti culturali del discorso del paziente, mentre quello psicologico per capire realmente la sua sofferenza e creare un legame empatico (Cattaneo, 2006). Dal momento che spesso lo stesso professionista non possiede le competenze che ricoprano entrambi gli ambiti, la scuola francese ha iniziato ad utilizzare il dispositivo terapeutico del gruppo transculturale, diretto da M. Rose Moro e formato da un terapeuta principale e da numerosi co-terapeuti di diversa origine culturale, oltre a figure quali l'interprete, l'assistente sociale, il medico, il pediatra, l'educatore, ecc. Tale dispositivo permette al paziente di sentirsi realmente accolto e capito ed utilizza la diversità culturale come elemento terapeutico.
Se il gruppo della scuola francese può risultare di certo difficile da mettere in campo, l'equipe multidisciplinare formata sia da operatori della salute sia da esperti e mediatori culturali costituisce a mio parere un obiettivo da conseguire in molti contesti di cura. Essa può infatti consentire ai terapeuti di allargare la visuale su mondi "altri", trasformando ed innovando continuamente sia loro stessi come persone sia il loro "fare clinico". Ogni terapeuta dovrebbe sempre essere consapevole del suo controtransfert culturale (Cursio, 2013) e rimanere aperto e curioso verso approcci anche diversi, senza snaturare la sua formazione professionale, ma cercando di costruire un contenitore relazionale in cui ogni paziente possa sentirsi davvero accolto.

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di Laura Zanolini

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