L’omesso consenso informato in chirurgia estetica

La Corte di Cassazione, con la sentenza 8756 del 29 marzo 2019, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno a una paziente che si era sottoposta a un intervento di lifting e che non era stata adeguatamente informata sulle possibili complicanze operatorie ribadendo il principio di diritto, già consacrato in precedenti pronunce, secondo cui “…la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni…”.
Nelle motivazioni gli Ermellini espongono come qualsiasi trattamento sanitario, eseguito senza previa prestazione di un valido consenso, avvenga in violazione degli artt. 32, II° comma e 13 della Costituzione (a norma dei quali, rispettivamente, nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge e ognuno ha diritto all’inviolabilità della libertà personale con riferimento alla salvaguardia della salute e dell’integrità fisica) nonché dell’art. 33 della Legge 833/1978, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questi è in grado di prestarlo e non ricorrano i presupposti dello stato di necessità.
La vicenda processuale
Una donna, che si era sottoposta a un intervento estetico di lifting cervico-facciale, in virtù del danno estetico patito, aveva citato in causa il medico e la struttura ove questi operava per colpa professionale.
All’esito, il Tribunale di Milano aveva dichiarato improcedibili entrambe le domande proposte. La donna aveva inizialmente dedotto in giudizio la sola colpa medica dei convenuti chiedendone il risarcimento dei danni patiti a seguito della mal riuscita esecuzione di intervento estetico di lifting a cui si era sottoposta nel 1998. Ma in sede di precisazione delle conclusioni l’attrice aveva introdotto l’ulteriore profilo di responsabilità per omessa informazione, domanda che mutava l’oggetto del giudizio e che era stata dichiarata tardiva dal Tribunale meneghino.
In seguito, la Corte d’Appello di Milano, investita del giudizio di gravame, dichiarava improcedibile la domanda di responsabilità proposta dalla paziente, ritenendo che, in considerazione della preclusione derivante dal giudicato, le fosse interdetta la possibilità di una nuova azione funzionale al risarcimento di altri danni derivanti dal medesimo illecito, pur se in relazione a voci nuove da quelle esposte nel giudizio di primo grado.
Avverso la sentenza di seconde cure la paziente proponeva ricorso per Cassazione con un unico motivo, che denunciava la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in punto di mancato riconoscimento del suo diritto al risarcimento del danno da omesso consenso informato in relazione all’intervento di lifting.
Il giudizio di legittimità
Il motivo su cui la Cassazione era chiamata a pronunciarsi, verteva nello stabilire se il giudicato intervenuto sulla responsabilità medica fosse di ostacolo alla pronuncia sulla domanda risarcitoria derivante dalla mancata acquisizione del consenso informato della paziente.
In particolare, la ricorrente lamentava l’interpretazione della sentenza d’appello secondo cui il danno da omesso consenso informato fosse parte sostanziale “del danno non patrimoniale unitariamente derivato all’appellante in occasione dell’intervento chirurgico di lifting”, asserendo che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte meneghina, il danno non patrimoniale da mancato consenso informato non possa essere considerato conseguente all’esecuzione dell’intervento chirurgico, e che gli elementi costitutivi della causa petendi del giudizio d’appello erano diversi da quelli posti a fondamento dell’azione di primo grado (la mera domanda da colpa professionale).
Ebbene, la Suprema Corte, con la sentenza in esame, accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione per un riesame della domanda. Nelle motivazioni, gli Ermellini stabiliscono come la violazione del consenso informato generatore di danno possa sussistere anche nel caso in cui la prestazione medica sia stata correttamente eseguita. Nella specie, inoltre, non opera il giudicato, in quanto il diritto alla tutela della salute è del tutto distinto dal diritto alla autodeterminazione. Ciò perché i fatti costitutivi della domanda risarcitoria per lesione di ciascuno dei suddetti due diritti sono diversi, con la conseguenza che la domanda “nuova” relativa ad uno di essi, non è comunque suscettibile di essere coperta dal giudicato formatosi sull’altra.
La Suprema Corte ricorda ancora che “il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario”, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto e ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona, o laddove si tratti di trattamento sanitario obbligatorio.
Tale consenso è inderogabile sicché non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del “deficit” di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica.
Pertanto, nell’interpretazione della Cassazione la correttezza o meno del trattamento non assume rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato; la condotta omissiva dannosa e l’ingiustizia del fatto sussistono per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit informativo, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà libera e consapevole.
Brevi considerazioni finali
La tematica resta insidiosa. Il legislatore, dopo essere intervenuto in materia di responsabilità medica con la Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017), ha disciplinato il consenso informato con la Legge n. 219/2017, i cui artt. 1-3 disciplinano rispettivamente il consenso informato in genere considerato, la terapia del dolore ed il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure nonché il consenso informato nei casi di incapaci o minori. Nessun accenno al consenso informato viene, invece, operato nella Legge Gelli-Bianco talché permangono notevoli dubbi interpretativi sull’onere della prova.
La distinzione formalizzata dalla Legge Gelli tra responsabilità aquiliana del medico operatore e responsabilità contrattuale della struttura sanitaria è destinata, comunque, ad incidere anche in tema di c.d. consenso informato; ad avviso dell’esponente negli interventi sanitari, sia a tutela della salute, sia di tipo meramente estetico, il paziente ha l’onere di allegare la violazione dell’obbligo di informazione, ma ha anche l’onere di provare che, ove l’informazione fosse stata fornita, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario che ha dato luogo a un peggioramento delle sue condizioni, di salute, o estetici.
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