La buona fede in fase di trattative contrattuali


Rimedi esperibili in caso di conclusione di un contratto valido ed efficace, ma sconveniente
La buona fede in fase di trattative contrattuali
Il presente contributo mira a fornire un quadro riassuntivo dei rimedi esperibili dalla parte che rimanga vittima di un contegno sleale durante la fase delle trattative contrattuali.
Non accade di rado, infatti, che il contratto lungi dal rappresentare il naturale approdo di un processo di formazione della volontà scaturente da scelte informate e consapevoli, sia piuttosto condizionato da comportamenti scorretti di una parte che mira a massimizzare il proprio vantaggio economico nascondendo o alterando informazioni alla controparte.
Naturalmente laddove il consenso di un contraente sia stato dato per un errore essenziale o sia stato estorto con dolo o violenza potrà essere esercitata l’azione di annullamento del contratto, laddove, invece, il comportamento scorretto non raggiunga l’intensità e la gravità richiesta per il rimedio demolitorio (vizi incompleti o incidenti), non resterà che esperire il rimedio risarcitorio.
Occorre anzitutto premettere che l’ordinamento è improntato, fatta eccezione per la disciplina consumeristica, ad una tendenziale irrilevanza per l’equilibrio economico del contratto.
Se nella disciplina consumeristica il legislatore risolve ab origine la questio, riconducendo alla violazione di obblighi informativi da parte del professionista ipotesi di invalidità del contratto concluso; al di fuori di tale ambito, l’insegnamento consegnatoci dal Supremo Consesso impedisce di pervenire al medesimo risultato, risolvendosi l’inadempimento ai doveri de quibus in mera responsabilità precontrattuale.
Per tale motivo, la parte che a causa del contegno sleale dell’altra abbia concluso un accordo non informato (rectius non adeguatamente informato) resta vincolata ad un contratto valido ancorché svantaggioso.
Le Sezioni Unite della Cassazione nel 2007 (sentenze 26724-26725/2007) hanno, infatti, affermato il principio di diritto per cui la violazione dei precetti di buona fede costituisce violazione di norme di comportamento e non di validità e pertanto è causa soltanto di responsabilità precontrattuale non incidendo sulla genesi del contratto.
Occorre, adesso, indagare il tema dei limiti oltrepassati i quali la parte che ha posto in essere un comportamento scorretto si trovi a dover risarcire l’altro paciscente.
Tali limiti andranno enucleati attraverso la valorizzazione della buona fede in sede di formazione del contratto.
In tale ambito, la figura della buona fede sta assumendo, infatti, sempre maggior rilievo come fonte di doveri di comportamento ex artt. 1337 e 1338 c.c.
La locuzione buona fede ha carattere polisemico, essendo utilizzata all’interno del codice civile principalmente in due accezioni, caratterizzate da diversa ratio legis.
Con un primo significato, si parla di buona fede soggettiva intesa come condizione psicologica di convinzione di agire secundum ius e pertanto di non consapevolezza di ledere l’altrui sfera giuridica.
Sotto una seconda dimensione si fa riferimento alla buona fede in senso oggettivo come sinonimo di correttezza, quindi come regola di comportamento sia nella fase di esecuzione del contratto, sia come regole di condotta nello svolgimento delle trattative nella fase di formazione del contratto.
La buona fede precontrattuale si specifica nei canoni della lealtà e della correttezza, obbligando le parti all’osservanza di una serie aperta di obblighi tra i quali emergono in particolare gli obblighi di chiarezza, segretezza ed informazione.
In tale ambito vanno ricomprese reticenze sleali o dichiarazioni inesatte sulla convenienza economica dell’accordo, sui pregi e le qualità di un prodotto, informazioni circa le proprie condizioni economiche e sulle condizioni del mercato.
Tali doveri trovano, tuttavia, un limite nell’onere di informazione che grava su ciascun paciscente per quanto riguarda informazioni che possono essere autonomamente procurate con l’ordinaria diligenza.
Orbene, alla sussunzione degli obblighi derivanti dalla buona fede all’interno delle regole di condotta consegue, pertanto, il postulato giuridico della non modificabilità giudiziaria dei contenuti dei contratti validi.
Ciò porta ad affrontare il nodo tematico della tutela del contraente che subisce la condotta sleale.
Unico rimedio esperibile in presenza dei c.d. vizi incompleti, come affermato dalle Sezioni Unite 2007, è il risarcimento del danno derivante da responsabilità precontrattuale.
E` questione, va detto, più di qualificazione che di quantificazione di tale risarcimento.
Il ristoro non potrà consistere nell’interesse positivo, ma nemmeno nell’interesse negativo (a non essere coinvolti in trattative o stipulazioni inutili). Dovrà piuttosto essere ragguagliato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato dal contegno sleale, ovvero nel c.d. interesse positivo virtuale o interesse differenziale al ripristino della situazione economica che sarebbe stata virtualmente ottenuta in assenza del comportamento scorretto dell’altro paciscente.
E` appena il caso di soggiungere che la giurisprudenza più recente, si veda Cass. n. 21255/2013 sul lodo Mondadori, è approdata all’affermazione per cui l’azione risarcitoria è legittimamente esperibile non soltanto in caso di vizi incompleti, ma anche nei casi in cui sarebbe astrattamente esercitabile il rimedio demolitorio essendo tale scelta rimessa alla parte vittima del comportamento contra ius.

Articolo del:


di Avv. Gabriele Babbucci

L'autore dell'articolo non è nella tua città?

Cerca un professionista con le stesse caratteristiche a te più vicino.

Cerca nella tua città o in una città di tuo interesse