Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, prova della filiazione


Come ottenere il riconoscimento del figlio? Se un genitore non ha riconosciuto il figlio, ci si può rivolgere al giudice
Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, prova della filiazione

Se i genitori non hanno provveduto al riconoscimento il figlio, si può promuovere un procedimento giudiziario per ottenere l’accertamento del rapporto di filiazione e la conseguente attribuzione dello status che spetta al figlio naturale riconosciuto (se il figlio è minorenne agisce nel suo interesse il genitore che lo abbia riconosciuto o il tutore). L’azione che tende a questo fine si chiama azione di dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità naturale.

La riforma del 1975 ha stabilito che l’azione di dichiarazione giudiziale sia di paternità che di maternità può sempre essere liberamente esperita (art. 269 c.c.), tranne nel caso in cui non è ammesso neppure il riconoscimento: ossia quando si tratti di persone che risultano figli di altri genitori (art. 253 c.c.). 

La prova della filiazione può essere data con ogni mezzo (art. 269, comma 2, c.c.) e, dunque, anche in via indiretta o per mezzo di presunzioni. L’ampia libertà di prova è altresì ribadita dalla L. 219/2012.  E’ bene rilevare che la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti. La dichiarazione della madre, da sola, non determina una prova come non è sufficiente dimostrare solo l’esistenza nel periodo del concepimento di relazioni o rapporti tra la madre ed il presunto padre.  

La legge, infatti, esclude che possano essere sufficienti a provare la paternità naturale sia la sola dichiarazione con cui la madre indichi il presunto padre, sia il fatto solo che tra la madre ed il presunto padre vi siano stati rapporti sessuali all’epoca del concepimento.

Ma mentre la prova della maternità è agevole ed è sufficiente dimostrare la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume sia la madre (art. 269, comma 3, cod. civ.), la prova della paternità è meno semplice. Il presunto genitore  può rifiutare  di prestarsi alle indagini ematologiche e genetiche (il test del DNA), in quanto  non può esservi costretto ma, il  medesimo rifiuto “non può ritenersi giustificato da esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto al segreto professionale (Cass. Civ. Sez. I n. 5116 del 3 aprile 2003, n. 9394 del 18 maggio 2004)”.

Sono peraltro considerati dati personali, ma non sensibili quelli diretti allo svolgimento di indagini per verificare la consanguineità tra due soggetti.  Infatti: “il trattamento di dati genetici di natura non sanitaria, quali quelli diretti allo svolgimento di indagini per verificare la consanguineità tra due soggetti, in vista di una futura azione di disconoscimento o accertamento della genitorialità, non ha alcuna finalità sanitaria e non è riconducibile all’esercizio, in sede giudiziaria, di un diritto della personalità di rango quantomeno pari a quello del contro interessato” (Cass. Civ. Sez. I n. 10947 del 19.5.2014). 

Il giudice,  quindi, può trarre dal rifiuto di sottoporsi agli esami un elemento atto a concorrere, insieme ad altre fonti di prova, a fondare il suo convincimento circa la fondatezza della domanda. Il rifiuto ingiustificato andrà vagliato insieme agli altri elementi raccolti nel giudizio così da formare la conclusione della gravità e della concordanza delle presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c.. 

Come accennato in apertura, l’azione per ottenere che sia dichiarata giudizialmente la paternità o la maternità naturale può essere intentata dal figlio o, nel suo interesse, dal genitore che esercita su di lui la responsabilità genitoriale oppure, previa autorizzazione giudiziale, dal tutore. Se il figlio ha  già compiuto i quattordici anni deve prestare il proprio consenso a che l’azione sia promossa o proseguita (art. 273 c.c.o).  L’azione è imprescrittibile per il figlio (art. 270, comma 1, c.c.). 

In caso di morte dell’interessato, l’azione può essere proseguita dai suoi discendenti, i quali possono anche promuovere l’azione che il figlio naturale non abbia intentato in vita, purché entro due anni dalla morte di lui (art. 270, comma 2, c.c.).  L’azione deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o nei confronti dei suoi eredi. In mancanza di questi il giudice provvede alla nomina di un curatore. Chiunque vi abbia interesse può intervenire nel giudizio per resistere alla domanda (art. 276 c.c.). 

La sentenza che dichiara la paternità o la maternità naturale produce gli stessi effetti del riconoscimento spontaneo (art. 277, comma 2, c.c.). Tuttavia il giudice può anche dettare i provvedimenti che stima utili per garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione del figlio e per la tutela degli interessi patrimoniali di lui (art. 277, comma 2, c.c.).

 

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Articolo del:


di Avv. Manila Potenziani

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