La legge italiana sul franchising


Ecco cosa prevede il nostro ordinamento in tema di franchising
La legge italiana sul franchising
La legge italiana definisce il franchising come: <diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi>> (art. 1 comma 1); precisandosi poi al secondo comma che <>.
La legge, comunque, descrive il franchising dal punto di vista dei contraenti ed in relazione all’oggetto del contratto soffermandosi sulle obbligazioni dalle parti. Il contratto di franchising si presenta nella descrizione del legislatore come un contratto bilaterale, sinallagmatico, oneroso (in quanto <>), e di durata in quanto non è ad esecuzione immediata o istantanea.
Quanto ai contraenti, se per un verso è pacifico che questi debbano entrambi godere di capacità giuridica e di agire nonché di autonomia soggettiva e che siano imprenditori, per un altro si discute la configurabilità di contratti di franchising tra società indipendenti, ma comunque legati tra loro da vincoli strutturali o negoziali preesistenti (coordinamento, collegamento o controllo), sebbene l’opinione prevalente sia nel senso di ammettere tale eventualità individuandosi la ratio della precisazione in commento nell’esigenza di rimarcare quella l’incompatibilità tra franchising e subordinazione.
La definizione legislativa individua l’oggetto del contratto nello scambio tra concessione, da parte del franchisor, del diritto di sfruttamento economico dei diritti sui propri beni immateriali e del proprio bagaglio di conoscenze imprenditoriali (package), verso il pagamento di un corrispettivo da parte del franchisee. E di assoluta centralità nella descrizione della fattispecie è il riferimento al know-how, per tale intendendosi ....<>.
Discusso, invece, è se l’inserimento del franchisee anche in una rete territoriale costituisca o meno parte dell’oggetto della prestazione complessa posta a carico del franchisor, sebbene l’orientamento prevalente sia nel senso della seconda opzione esegetica, ritenendo che la pluralità dei punti vendita non sia presupposto del contratto, ma un impegno del franchisor.
La legge italiana è dedicata prevalentemente alla disciplina degli obblighi informativi precontrattuali posti a carico del franchisor (art. 4) e a quelli precontrattuali di comportamento che gravano su entrambe le parti (art. 5 e 6), per la cui trattazione si rinvia all’ultimo capitolo di questo scritto, tra l’altro prescrivendo l’obbligo di redazione del contratto per iscritto a pena di nullità (art. 3, co. 1), evidentemente allo scopo di neutralizzare o quantomeno limitare possibili abusi del contraente forte (il franchisor nella fattispecie), consentendo al franchisee di controllare la conformità delle prestazioni rese dalla controparte a quanto concordato.
Oltre che della forma del contratto di franchising la legge, dopo aver precisato che il franchisor deve aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale (art. 3, co. 2), si occupa anche del suo contenuto minimo prescrivendo che esso debba espressamente indicare alcuni elementi (art. 3, co. 4), quali:
a) l'ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso che il franchisee deve sostenere prima dell'inizio dell'attività;
b) le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l'eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte del franchisee; le royalties, per definizione dello stesso legislatore (art. 1, co. 3, lett. c)) sono una percentuale che il franchisor richiede al franchisee commisurata al giro d'affari dell’affiliato o in quota fissa, da versarsi anche in quote fisse periodiche e
rappresentano pertanto il corrispettivo dovuto al franchisor dal franchisee nel corso del rapporto contrattuale);
c) l'ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri franchisee, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti franchisor. Si tratta del patto di esclusiva che il franchisor può concedere a favore del franchisee in rapporto all’ambito territoriale entro i cui confini questi esercita la propria attività contrattuale e rappresenta senza dubbio un incentivo per il franchisee, poiché che gli consente di non subire la concorrenza di altri affiliati o del medesimo franchisor in un determinato territorio od in relazione a determinati canali di vendita;
d) la specifica del know-how fornito dal franchisor al franchisee;
e) le eventuali modalità di riconoscimento dell'apporto di know-how da parte del franchisee;
f) le caratteristiche dei servizi offerti dal franchisor in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione;
g) le condizioni di rinnovo (ove il contratto sia a tempo determinato e fermo l’obbligo sancito dal co. 3 dell’art. 3 di garantire una durata minima, non inferiore a tre anni, per consentire al franchisee l’ammortamento dell’investimento effettuato), risoluzione od eventuale cessione del contratto di franchising.
La legge, per contro, non si occupa dei profili esecutivi del rapporto e tratta solo marginalmente gli aspetti di sua maggiore complessità, dedicando una specifica norma alla facoltà delle parti di ricorrere alla conciliazione (art. 7) ed un’altra all’inosservanza degli obblighi informativi (rectius: trasferimento di <>) prevedendo come sanzione l’annullabilità del contratto ex art. 1439 c.c. cui può aggiungersi il risarcimento del danno se dovuto (art. 8).

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di Avv. Renato Rugiero

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