La sottoscrizione dei contratti di investimento


La firma dell’investitore soddisferebbe da sola il requisito di forma. La sottoscrizione della banca sarebbe, invece, un inutile formalismo
La sottoscrizione dei contratti di investimento
Recentemente è stata rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione[1], la questione se, a norma del D.Lgs. 58/98, art. 23, il requisito della forma scritta del contratto d’investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione dell’intermediario, ai fini della validità del negozio. La soluzione si rivela di particolare importanza poiché, secondo la prassi bancaria, la conclusione del contratto quadro d’investimento si ha con la sottoscrizione di un originale da parte del cliente, che resta in possesso della banca, seguita dalla consegna all’investitore di un altro documento identico, normalmente firmato dall’istituto di credito. Lo scambio documentale comporta la disponibilità in capo a entrambe dell’atto sottoscritto dall’altra. Secondo un filone giurisprudenziale, la prassi non soddisfa i requisiti di forma dell’art. 23 TUF. Da un lato, è pacifico che la firma del cliente sia un requisito indefettibile sanzionato con la nullità[2]. Dall’altro lato, un diverso orientamento dubita della necessità della firma della banca[3]. Al vaglio delle Sezioni Unite, ci sono, quindi, due interpretazioni dei requisiti di cui all’art. 23 TUF. Secondo l’orientamento più risalente, la norma impone la forma bilaterale ad substantiam, così che la mancanza della firma dell’intermediario comporta la nullità del contratto quadro e, quindi, la ripetibilità delle prestazioni eseguite. La nullità sarebbe, allora, da ricondurre all’alveo delle nullità strutturali. L’assenza del requisito formale non è, inoltre, superabile dalla produzione in giudizio del contratto-quadro sottoscritto dal cliente e neppure da altri comportamenti concludenti anche se documentati per iscritto. Altra parte della giurisprudenza, invece, nega che alla mancanza della sottoscrizione segua la nullità. Gli interpreti muovono dalla ratio della norma, volta a riequilibrare la posizione delle parti contrattuali e, quindi, a proteggere il cliente, attraverso la valorizzazione dell’esigenza di trasparenza. Come sostenuto in dottrina, non tutte le prescrizioni formali sono uguali. Nell’ambito dei rapporti caratterizzati dall’equilibrio tra le parti, il requisito di forma funge da criterio d’imputazione della dichiarazione, nonché da elemento di ponderazione dell’impegno assunto e della serietà dell’accordo. Laddove, invece, le parti si trovino in posizione asimmetrica, la forma scritta mira a scongiurare il rischio di un’insufficiente riflessione o dell’approfittamento della controparte. Qui, il fine perseguito dal Legislatore è quello di proteggere l’interesse del contraente debole a essere puntualmente informato su tutti gli aspetti della vicenda negoziale. Ecco che, qualificando la nullità come funzionale e non strutturale, si giustifica la sola rilevabilità da parte del cliente, oltre che ex officio sempre, però, nell’esclusivo interesse del contraente debole. La peculiarità della nullità di protezione non si esaurisce nella sola valenza relativa, ma anche nella possibile sanatoria "di fatto"del negozio, tutte le volte in cui la parte debole non la solleva in giudizio. Pertanto, la firma dell’investitore soddisferebbe da sola il requisito di forma, ex art. 23 TUF, e il sotteso interesse. La sottoscrizione della banca sarebbe, invece, un inutile formalismo, avendo la stessa predisposto le condizioni generali di contratto. La volontà di obbligarsi dell’intermediario potrebbe, quindi, rivestire anche altre forme, come la predisposizione del testo contrattuale, la consegna del documento o l’esecuzione del contratto. Insomma, la firma della banca non sarebbe preclusa, ma sostanzialmente irrilevante ai fini del perfezionamento dell’investimento. Infine, la Corte avverte del facile uso opportunistico a cui sarebbe soggetto lo strumento formale. Infatti, se si propendesse per la bilateralità del vincolo formale, il cliente scorretto, a fronte di una perdita, potrebbe invocare la nullità del contratto sulla base della sottoscrizione mancante, negando al contempo di essere in possesso del documento sottoscritto dalla banca. Ecco che l’uso selettivo della nullità si tradurrebbe in una forma di abuso del diritto, volto a evitare le perdite derivanti da investimenti infruttuosi. S’intuisce, quindi, l’importanza della questione soprattutto in ragione delle diverse conseguenze di disciplina in caso di mancata sottoscrizione della banca. Qualificare il requisito come bilaterale porta con sé la nullità del contratto quadro e degli investimenti successivi ed è potenzialmente soggetto a comportamenti abusivi. Nel caso, invece, si ritenga che la ratio ispiratrice della norma sia quella di tutela del contraente debole, la mancanza della firma dell’istituto di credito è ininfluente ai fini del perfezionamento e dell’efficacia del vincolo.
[1] C.10447/17.
[2] C.28810/13; C. 3623/16.
[3] C. 5919/16; C.7068/16;

Articolo del:


di Avv. Michele Zanchi

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