Lamentarsi del lavoro con gli altri: è necessario?
Amare i propri impegni di lavoro, per vivere meglio!
Lo sport più praticato al mondo non è il calcio, ma il parlar male del proprio lavoro con gli altri!
Ma è proprio necessario?
Poiché ogni giorno, tra il lavoro effettivo ed il tempo dedicato a parlare di lavoro, arriviamo comodamente alle 12 ore, cosa ci spinge ad essere così distruttivi di ciò che, a ben guardare, è protagonista di almeno la metà del tempo della nostra vita?
A mio avviso, molto dipende dalla comodità di essere conformisti e di non mostrarsi come "pecore nere" nel gregge di pecore bianche.
Oggi, ancor di più di ieri, si è di moda se ci mostriamo scontenti del nostro lavoro e se dichiariamo di coltivare il sogno di aprire un ristorante italiano in Polinesia.
Ma dimmi: quante persone conosci che hanno davvero fatto tale scelta? Poche e, comunque, anche il lavoro del ristoratore in Polinesia avrà i suoi contrattempi e ciò, dopo qualche mese o anno, potrebbe condurre a parlar male anche di quel lavoro.
Dunque, va bene coltivare tutti i sogni, perché sono una forma nobile di "speranza".
Ma perché, in attesa di realizzare i sogni, dobbiamo accanirci con la "realtà" del nostro lavoro di tutti i giorni (reali)? Perché non proviamo ad essere orgogliosamente "pecore nere"?
Un buon motivo, almeno per mostrarci contenti del nostro lavoro, viene dai figli, ai quali faremmo un grande torto se li abituassimo a sentir parlar male del lavoro, poiché li spingeremmo verso la "fossa" dei disperati e disprezzati sul lavoro.
Sì, perché è bene saperlo: se noi disprezziamo il nostro lavoro, non diamo mai una buona impressione di noi stessi e gli altri, cinicamente, fingendo di darci ragione e di comprenderci, in realtà, ci disprezzano.
Desideriamo questo per i nostri figli? E se ciò accade a noi, è giusto ed inevitabile che accada anche ai nostri figli?
Questa è una "molla" molto potente, capace di farti rovesciare la visuale in un nanosecondo!
Riflettiamo insieme su questo e, da oggi, quando qualcuno ci chiederà del nostro lavoro, mostriamoci entusiasti e questo sbalordirà sia il nostro interlocutore (al quale, manco a dirlo, non interessa nulla dei nostri problemi lavorativi, sperando solo di trovare l’ennesima pecora "bianca") sia noi stessi, scoprendoci persone "positive", luminose ed attraenti!
Ci lasciamo con una splendida storia, dove, rispetto all’originale, mi sono concesso la licenza di cambiare la parola "vita" in "lavoro":
"Un uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà del lavoro e se ne lamentò con un famoso maestro.
«Non ce la faccio più! Questo lavoro mi è insopportabile».
Il maestro prese una manciata di cenere e la lasciò cadere in un bicchiere ricolmo di acqua, dicendo: «Queste sono le tue sofferenze».
L’acqua nel bicchiere si intorbidì e si insudiciò.
Il maestro la buttò via.
Poi, prese un’altra manciata di cenere, la fece vedere all’uomo, si affacciò alla finestra e la buttò nel mare.
La cenere si disperse in un attimo e il mare rimase esattamente com’era prima.
«Vedi?», spiegò il maestro: «Ogni giorno devi decidere se essere un bicchiere d’acqua o il mare».
E noi? Che vogliamo essere?
Ma è proprio necessario?
Poiché ogni giorno, tra il lavoro effettivo ed il tempo dedicato a parlare di lavoro, arriviamo comodamente alle 12 ore, cosa ci spinge ad essere così distruttivi di ciò che, a ben guardare, è protagonista di almeno la metà del tempo della nostra vita?
A mio avviso, molto dipende dalla comodità di essere conformisti e di non mostrarsi come "pecore nere" nel gregge di pecore bianche.
Oggi, ancor di più di ieri, si è di moda se ci mostriamo scontenti del nostro lavoro e se dichiariamo di coltivare il sogno di aprire un ristorante italiano in Polinesia.
Ma dimmi: quante persone conosci che hanno davvero fatto tale scelta? Poche e, comunque, anche il lavoro del ristoratore in Polinesia avrà i suoi contrattempi e ciò, dopo qualche mese o anno, potrebbe condurre a parlar male anche di quel lavoro.
Dunque, va bene coltivare tutti i sogni, perché sono una forma nobile di "speranza".
Ma perché, in attesa di realizzare i sogni, dobbiamo accanirci con la "realtà" del nostro lavoro di tutti i giorni (reali)? Perché non proviamo ad essere orgogliosamente "pecore nere"?
Un buon motivo, almeno per mostrarci contenti del nostro lavoro, viene dai figli, ai quali faremmo un grande torto se li abituassimo a sentir parlar male del lavoro, poiché li spingeremmo verso la "fossa" dei disperati e disprezzati sul lavoro.
Sì, perché è bene saperlo: se noi disprezziamo il nostro lavoro, non diamo mai una buona impressione di noi stessi e gli altri, cinicamente, fingendo di darci ragione e di comprenderci, in realtà, ci disprezzano.
Desideriamo questo per i nostri figli? E se ciò accade a noi, è giusto ed inevitabile che accada anche ai nostri figli?
Questa è una "molla" molto potente, capace di farti rovesciare la visuale in un nanosecondo!
Riflettiamo insieme su questo e, da oggi, quando qualcuno ci chiederà del nostro lavoro, mostriamoci entusiasti e questo sbalordirà sia il nostro interlocutore (al quale, manco a dirlo, non interessa nulla dei nostri problemi lavorativi, sperando solo di trovare l’ennesima pecora "bianca") sia noi stessi, scoprendoci persone "positive", luminose ed attraenti!
Ci lasciamo con una splendida storia, dove, rispetto all’originale, mi sono concesso la licenza di cambiare la parola "vita" in "lavoro":
"Un uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà del lavoro e se ne lamentò con un famoso maestro.
«Non ce la faccio più! Questo lavoro mi è insopportabile».
Il maestro prese una manciata di cenere e la lasciò cadere in un bicchiere ricolmo di acqua, dicendo: «Queste sono le tue sofferenze».
L’acqua nel bicchiere si intorbidì e si insudiciò.
Il maestro la buttò via.
Poi, prese un’altra manciata di cenere, la fece vedere all’uomo, si affacciò alla finestra e la buttò nel mare.
La cenere si disperse in un attimo e il mare rimase esattamente com’era prima.
«Vedi?», spiegò il maestro: «Ogni giorno devi decidere se essere un bicchiere d’acqua o il mare».
E noi? Che vogliamo essere?
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