Lavoro part-time
Quali rimedi ha il lavoratore part-time che subisce continui cambiamenti dell’orario di lavoro?
Sarà capitato a tutti di entrare in un negozio o di trovarsi alla cassa del supermercato e sentire i dipendenti parlare tra loro dei rispettivi turni di lavoro di quella specifica settimana o del giorno di riposo concesso loro in quella specifica settimana.
Fintantoché ciò accade tra dipendenti con orario di lavoro full-time, non vi è nulla di strano perché il datore di lavoro può adibire i lavoratori a tempo pieno all’orario che meglio risponde alle sue esigenze e dunque sottoponendoli anche a cambiamenti d’orario dal momento che il lavoratore a tempo pieno in linea generale riceve una retribuzione rispettosa dei principi dell’art. 36 della Costituzione ed è per principio dedicato ad un unico datore di lavoro per tutto l’orario di lavoro settimanale.
Diverso è il discorso quando il datore di lavoro sottopone a continui cambi turno, a parità di numero di ore di lavoro, i lavoratori che hanno un orario di lavoro part-time.
Ebbene, rispetto a questi ultimi, il Legislatore da sempre prevede che l’orario di lavoro debba essere fisso e predeterminato al fine di consentire non solo di avere un secondo lavoro che permetta di raggiungere una retribuzione mensile dignitosa e sufficiente, ma anche di avere la certezza - e a lungo termine - di quale sia il tempo che il lavoratore part-time deve dedicare al rapporto di lavoro e quale sia invece il tempo libero ossia da dedicare alle proprie esigenze famigliari e personali.
Sul punto è stata addirittura la Corte Costituzionale a sottolineare che:
<<Sarebbe inoltre certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall'attività lavorativa. A questo riguardo non è superfluo ricordare quale particolare rilievo riveste il rapporto a tempo parziale per il lavoro femminile: per molte donne è questa, infatti, la figura contrattuale che rende possibile il loro ingresso o la loro permanenza nel mondo del lavoro, perché consente di contemperare l'attività lavorativa con quegli impegni di assistenza familiare che ancor oggi gravano di fatto prevalentemente sulla donna. Ma è chiaro che queste esigenze verrebbero completamente obliterate ove fosse consentito pattuire la variabilità unilaterale della collocazione temporale della prestazione lavorativa.>> (Corte Costituzionale, 11.05.1992, n. 210).
Nonostante il quadro normativo e giurisprudenziale risulti ben delineato e del tutto giustificato, la maggior parte dei lavoratori part-time, nella realtà di tutti i giorni, vede cambiare di settimana in settimana il proprio orario di lavoro, con comunicazioni all’ultimo minuto, con ciò vedendo pregiudicata sia la possibilità di integrare il suo reddito assumendo un secondo lavoro sia la possibilità di seguire gli impegni familiari o di organizzare il tempo libero.
Senza ogni dubbio, questo è un pessimo modo di produrre su cui purtroppo si fonda larga parte del terziario e della grande distribuzione e va combattuto in ogni modo possibile perché un’organizzazione del lavoro che riserva ai propri dipendenti un futuro di povertà ed insoddisfazione, da un lato, è destinata a fallire e, dall’altro, contribuisce soltanto a mettere in circolo rabbia sociale.
Ecco che, nella realtà di tutti i giorni si leggono lettere di assunzione di lavori part-time in cui l’orario di lavoro è così definito:
- <<di norma l'orario di lavoro sarà di 4 (quattro) ore giornaliere, così ripartite: 6.00/10.00 - 7.00/11.00 - 8.00/12.00 - 9.00/13.00 - 10.00/14.00 - 11.00/15.00 - 12.00/16.00 - 13.00/17.00 - 14.00/18.00 - 15.00/19.00 - 16.00/20.00 - 17.00/21.00 - 18.00/22.00 - 19.00/23.00 - 20.00/24.00 - 21.00/1.00 - 22.00/2.00 - 23.00/3.00>>;
- <<24 ore settimanali dal lunedì alla domenica nelle seguenti fasce orarie: dalle ore 7.00 alle ore 12.00 o dalle ore 12.00 alle ore 20.00. L’orario potrà essere modificato per esigenze aziendali>>;
- <<L’orario di lavoro, pari a 30 ore settimanali, è distribuito dal lunedì alla domenica con un giorno di riposo suddiviso su turni comunicati settimanalmente secondo le seguenti fasce orarie sono indicative e con possibilità di variazione: dalle ore 09:00 alle ore 14:00; dalle ore 14:00 alle ore 19:00; dalle ore 19:00 alle ore 00:00; dalle ore 00:00 alle ore 05:00; dalle ore 05:00 alle ore 10:00>>.
Il datore di lavoro così facendo pretenderebbe di assicurarsi la disponibilità del dipendente per un arco di tempo di 24 h, riservandosi di decidere di volta in volta in quale momento dell’intera giornata collocata le poche ore di lavoro giornaliero pagate!
Se non fosse che, dinanzi a lettere di assunzione di questo tipo, il rimedio c’è ed è quello di fare ricorso al Giudice del Lavoro con l’assistenza di un avvocato giuslavorista che:
- segnali al Giudice l’indeterminatezza dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, al mese e all’anno;
- chieda al Giudice di determinare lui l’orario di lavoro in maniera fissa e predeterminata sulla base delle esigenze familiari e di integrazione del reddito del lavoratore nonché di quelle dell’azienda;
- chieda al Giudice di risarcire il danno che l’indeterminatezza dell’orario di lavoro ha causato al lavoratore.
Il Tribunale del Lavoro di Torino chiamato a pronunciarsi in un caso del genere ha infatti stabilito che:
<<Nel contratto in esame è effettivamente indicata la durata della prestazione lavorativa in 4 ore al giorno per 6 giorni settimanali, ma va osservato che la collocazione temporale dell'orario è puntualmente indicata solo all'apparenza, in quanto l'indicazione di ben 18 possibili fasce orarie che coprono complessivamente 21 ore su 24 equivale nella sostanza ad una omessa indicazione. La lavoratrice infatti poteva confidare di essere libera da impegni lavorativi solo dalle 3 alle 6 del mattino, essendo la restante parte della giornata a disposizione del datore di lavoro, che poteva richiedere la prestazione in qualsiasi orario sulla base delle proprie esigenze organizzative.
Ai fini della liquidazione equitativa possono essere valorizzati i parametri già enunciati nel medesimo comma 2 dell'art. 8 per orientare il giudizio sulla determinazione delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, essendo indubbia l'identità di ratio: rilevano in particolare, nel caso di specie, le responsabilità familiari della lavoratrice, madre di due bambini (nati nel 2004 e nel 2010), per il cui accudimento l'imprevedibilità dell'orario di lavoro ha costituito un significativo ostacolo organizzativo (...) e deve ritenersi equo - in considerazione della particolare gravosità e penosità dell'attività lavorativa svolta in orari non predeterminabili - ricorrere al criterio utilizzato dalla contrattazione collettiva per compensare la maggiore gravosità del lavoro straordinario, ovvero una maggiorazione del 30% della retribuzione (art. 290 C.C.N.L.), tenuto conto della disponibilità della ricorrente a lavorare 21 ore su 24 a fronte di una prestazione dovuta di sole 4 ore giornaliere. La società convenuta dovrà pertanto corrispondere alla ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, una somma corrispondente al 30% della retribuzione erogata per tutta la durata del rapporto di lavoro, maggiorata di interessi e rivalutazione di legge.>> (sentenza Trib. Torino, Sez. Lav., Dott.ssa Mancinelli, n. 1360 del 24.08.2017).
Anche il Tribunale del Lavoro di Milano ha avuto modo di pronunciarsi rilevando che:
<<E’ pacifico che l’accordo non contenga alcuna specifica collocazione temporale né contempli una clausola di flessibilità da parte della lavoratrice.
(...)
In ragione di quanto precede, deve ritenersi che la disciplina dell'orario contenuta nel contratto d'assunzione della sig.ra X sia nulla non ravvisandosi nemmeno, nel caso concreto, la sottoscrizione di un patto di flessibilità, mancando qualunque documento che contenga il consenso della lavoratrice alla variazione di orario ed avente le caratteristiche analiticamente indicate nel CCNL qui applicabile.
Di certo, non può attribuirsi tale valenza alla mera dicitura "L’orario potrà essere modificato per esigenze aziendali", come anche dimostra la pacifica circostanza che, a fronte della richiesta flessibilità, mai sono state versate le maggiorazioni contrattualmente previste.
In assenza di indicazioni circa un maggior pregiudizio, il ristoro può ben essere determinato nella richiesta maggiorazione della retribuzione del 20%, valutata tenendo conto del disagio, per la ricorrente, di sapere soltanto all'ultimo momento l'effettiva collocazione oraria della propria prestazione e della conseguente necessità di dover conciliare ciò con la gestione della famiglia e, in particolare, dell’anziana madre. Si determina quindi, sino al marzo 2017, la somma complessiva di euro 1.757,85 (...) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla domanda al saldo, oltre alle ulteriori somme maturate da marzo 2017 sino alla stabilizzazione>> (sentenza Trib. Milano, Sez. Lav., Dott.ssa Saioni, n. 1556 del 21.06.2017).
Fintantoché ciò accade tra dipendenti con orario di lavoro full-time, non vi è nulla di strano perché il datore di lavoro può adibire i lavoratori a tempo pieno all’orario che meglio risponde alle sue esigenze e dunque sottoponendoli anche a cambiamenti d’orario dal momento che il lavoratore a tempo pieno in linea generale riceve una retribuzione rispettosa dei principi dell’art. 36 della Costituzione ed è per principio dedicato ad un unico datore di lavoro per tutto l’orario di lavoro settimanale.
Diverso è il discorso quando il datore di lavoro sottopone a continui cambi turno, a parità di numero di ore di lavoro, i lavoratori che hanno un orario di lavoro part-time.
Ebbene, rispetto a questi ultimi, il Legislatore da sempre prevede che l’orario di lavoro debba essere fisso e predeterminato al fine di consentire non solo di avere un secondo lavoro che permetta di raggiungere una retribuzione mensile dignitosa e sufficiente, ma anche di avere la certezza - e a lungo termine - di quale sia il tempo che il lavoratore part-time deve dedicare al rapporto di lavoro e quale sia invece il tempo libero ossia da dedicare alle proprie esigenze famigliari e personali.
Sul punto è stata addirittura la Corte Costituzionale a sottolineare che:
<<Sarebbe inoltre certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall'attività lavorativa. A questo riguardo non è superfluo ricordare quale particolare rilievo riveste il rapporto a tempo parziale per il lavoro femminile: per molte donne è questa, infatti, la figura contrattuale che rende possibile il loro ingresso o la loro permanenza nel mondo del lavoro, perché consente di contemperare l'attività lavorativa con quegli impegni di assistenza familiare che ancor oggi gravano di fatto prevalentemente sulla donna. Ma è chiaro che queste esigenze verrebbero completamente obliterate ove fosse consentito pattuire la variabilità unilaterale della collocazione temporale della prestazione lavorativa.>> (Corte Costituzionale, 11.05.1992, n. 210).
Nonostante il quadro normativo e giurisprudenziale risulti ben delineato e del tutto giustificato, la maggior parte dei lavoratori part-time, nella realtà di tutti i giorni, vede cambiare di settimana in settimana il proprio orario di lavoro, con comunicazioni all’ultimo minuto, con ciò vedendo pregiudicata sia la possibilità di integrare il suo reddito assumendo un secondo lavoro sia la possibilità di seguire gli impegni familiari o di organizzare il tempo libero.
Senza ogni dubbio, questo è un pessimo modo di produrre su cui purtroppo si fonda larga parte del terziario e della grande distribuzione e va combattuto in ogni modo possibile perché un’organizzazione del lavoro che riserva ai propri dipendenti un futuro di povertà ed insoddisfazione, da un lato, è destinata a fallire e, dall’altro, contribuisce soltanto a mettere in circolo rabbia sociale.
Ecco che, nella realtà di tutti i giorni si leggono lettere di assunzione di lavori part-time in cui l’orario di lavoro è così definito:
- <<di norma l'orario di lavoro sarà di 4 (quattro) ore giornaliere, così ripartite: 6.00/10.00 - 7.00/11.00 - 8.00/12.00 - 9.00/13.00 - 10.00/14.00 - 11.00/15.00 - 12.00/16.00 - 13.00/17.00 - 14.00/18.00 - 15.00/19.00 - 16.00/20.00 - 17.00/21.00 - 18.00/22.00 - 19.00/23.00 - 20.00/24.00 - 21.00/1.00 - 22.00/2.00 - 23.00/3.00>>;
- <<24 ore settimanali dal lunedì alla domenica nelle seguenti fasce orarie: dalle ore 7.00 alle ore 12.00 o dalle ore 12.00 alle ore 20.00. L’orario potrà essere modificato per esigenze aziendali>>;
- <<L’orario di lavoro, pari a 30 ore settimanali, è distribuito dal lunedì alla domenica con un giorno di riposo suddiviso su turni comunicati settimanalmente secondo le seguenti fasce orarie sono indicative e con possibilità di variazione: dalle ore 09:00 alle ore 14:00; dalle ore 14:00 alle ore 19:00; dalle ore 19:00 alle ore 00:00; dalle ore 00:00 alle ore 05:00; dalle ore 05:00 alle ore 10:00>>.
Il datore di lavoro così facendo pretenderebbe di assicurarsi la disponibilità del dipendente per un arco di tempo di 24 h, riservandosi di decidere di volta in volta in quale momento dell’intera giornata collocata le poche ore di lavoro giornaliero pagate!
Se non fosse che, dinanzi a lettere di assunzione di questo tipo, il rimedio c’è ed è quello di fare ricorso al Giudice del Lavoro con l’assistenza di un avvocato giuslavorista che:
- segnali al Giudice l’indeterminatezza dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, al mese e all’anno;
- chieda al Giudice di determinare lui l’orario di lavoro in maniera fissa e predeterminata sulla base delle esigenze familiari e di integrazione del reddito del lavoratore nonché di quelle dell’azienda;
- chieda al Giudice di risarcire il danno che l’indeterminatezza dell’orario di lavoro ha causato al lavoratore.
Il Tribunale del Lavoro di Torino chiamato a pronunciarsi in un caso del genere ha infatti stabilito che:
<<Nel contratto in esame è effettivamente indicata la durata della prestazione lavorativa in 4 ore al giorno per 6 giorni settimanali, ma va osservato che la collocazione temporale dell'orario è puntualmente indicata solo all'apparenza, in quanto l'indicazione di ben 18 possibili fasce orarie che coprono complessivamente 21 ore su 24 equivale nella sostanza ad una omessa indicazione. La lavoratrice infatti poteva confidare di essere libera da impegni lavorativi solo dalle 3 alle 6 del mattino, essendo la restante parte della giornata a disposizione del datore di lavoro, che poteva richiedere la prestazione in qualsiasi orario sulla base delle proprie esigenze organizzative.
Ai fini della liquidazione equitativa possono essere valorizzati i parametri già enunciati nel medesimo comma 2 dell'art. 8 per orientare il giudizio sulla determinazione delle modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, essendo indubbia l'identità di ratio: rilevano in particolare, nel caso di specie, le responsabilità familiari della lavoratrice, madre di due bambini (nati nel 2004 e nel 2010), per il cui accudimento l'imprevedibilità dell'orario di lavoro ha costituito un significativo ostacolo organizzativo (...) e deve ritenersi equo - in considerazione della particolare gravosità e penosità dell'attività lavorativa svolta in orari non predeterminabili - ricorrere al criterio utilizzato dalla contrattazione collettiva per compensare la maggiore gravosità del lavoro straordinario, ovvero una maggiorazione del 30% della retribuzione (art. 290 C.C.N.L.), tenuto conto della disponibilità della ricorrente a lavorare 21 ore su 24 a fronte di una prestazione dovuta di sole 4 ore giornaliere. La società convenuta dovrà pertanto corrispondere alla ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, una somma corrispondente al 30% della retribuzione erogata per tutta la durata del rapporto di lavoro, maggiorata di interessi e rivalutazione di legge.>> (sentenza Trib. Torino, Sez. Lav., Dott.ssa Mancinelli, n. 1360 del 24.08.2017).
Anche il Tribunale del Lavoro di Milano ha avuto modo di pronunciarsi rilevando che:
<<E’ pacifico che l’accordo non contenga alcuna specifica collocazione temporale né contempli una clausola di flessibilità da parte della lavoratrice.
(...)
In ragione di quanto precede, deve ritenersi che la disciplina dell'orario contenuta nel contratto d'assunzione della sig.ra X sia nulla non ravvisandosi nemmeno, nel caso concreto, la sottoscrizione di un patto di flessibilità, mancando qualunque documento che contenga il consenso della lavoratrice alla variazione di orario ed avente le caratteristiche analiticamente indicate nel CCNL qui applicabile.
Di certo, non può attribuirsi tale valenza alla mera dicitura "L’orario potrà essere modificato per esigenze aziendali", come anche dimostra la pacifica circostanza che, a fronte della richiesta flessibilità, mai sono state versate le maggiorazioni contrattualmente previste.
In assenza di indicazioni circa un maggior pregiudizio, il ristoro può ben essere determinato nella richiesta maggiorazione della retribuzione del 20%, valutata tenendo conto del disagio, per la ricorrente, di sapere soltanto all'ultimo momento l'effettiva collocazione oraria della propria prestazione e della conseguente necessità di dover conciliare ciò con la gestione della famiglia e, in particolare, dell’anziana madre. Si determina quindi, sino al marzo 2017, la somma complessiva di euro 1.757,85 (...) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla domanda al saldo, oltre alle ulteriori somme maturate da marzo 2017 sino alla stabilizzazione>> (sentenza Trib. Milano, Sez. Lav., Dott.ssa Saioni, n. 1556 del 21.06.2017).
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