Maltrattamenti in famiglia: condotta reiterata
La condotta illegittima si configura con atti ripetuti nel tempo

IL REATO DI MALTRATTAMENTI: CONDOTTA REITERATA
Il reato di maltrattamenti in famiglia disciplinato dall’art. 572 del codice penale prevede che " ...chi maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni" .
Il bene giuridico tutelato non è solo la famiglia ma qualsiasi tipo di vincolo che lega più soggetti, infatti dottrina e giurisprudenza più recenti ritengono che l’oggetto della tutela giuridica sia l’integrità psicofisica del soggetto passivo o meglio la personalità dell’individuo.
La reiterazione degli atti lesivi attribuisce alla condotta una oggettività giuridica autonoma rispetto ai singoli atti: la condotta del maltrattare, per la sua durata e ripetitività, lede l’intera personalità, mentre il singolo atto (ingiuria, percossa, minaccia) lede l’ integrità psicofisica.
Ormai da tempo la dottrina e la giurisprudenza sono uniformi nel considerare che il termine "maltrattamenti" richieda una pluralità di atti per la perfezione del delitto. Si tratta infatti di un termine che indica un comportamento protratto nel tempo.
Secondo consolidata giurisprudenza il reato è caratterizzato da una condotta abituale, per la sua configurazione richiede una serie abituale di condotte che possono estrinsecarsi in atti lesivi dell’integrità psicofisica, dell’onore, del decoro o di mero disprezzo e prevaricazione del soggetto passivo, attuati in un arco temporale ampio, ma entro il quale possono agevolmente essere individuati come espressione di un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare o denigrare il soggetto passivo.
Invece fatti occasionali ed episodici, pur penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di reato (ingiurie, minacce, lesioni) determinati da situazioni contingenti (es. rapporti interpersonali connotati da permanente conflittualità) e come tali insuscettibili di essere inquadrati in una cornice unitaria, non possono assurgere alla definizione normativa di cui all’art. 572 c.p." (sent. Cass. del 20.01.2014 n. 2326).
Su tale scia interpretativa la giurisprudenza è da tempo costante, a titolo di esempio si indicano numerosi precedenti di giurisprudenza (sent. Cass. Sez. 6 del 13/2/2009 n. 6490, sent. Cass. Sez 6 del 2.12.2010 n. 45037).
Una sentenza più recente è la n. 30903/2015 della 6 sezione penale della Cassazione, in cui si ribadisce che "il reato di maltrattamenti integra un’ipotesi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; esso si perfeziona allorchè si realizzi un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art 81 c.p."
Per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, dunque, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, né un eventuale precedente specifico, che può valere solo per la valutazione della personalità dell’imputato. E’ inoltre necessario che la condotta abituale di maltrattamenti sia idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile, la Cassazione ha precisato, infatti, che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari e che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
In maniera prevalente si parla di dolo generico: l’unità fra i vari atti va cercata nella abitualità della condotta legata a questo elemento psicologico che va via via perfezionandosi di pari passo con la fattispecie. La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in esame non implica l’intenzione di sottoporre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (Cass. del 18.2.2010).
E’ bene dunque, verificare se i fatti denunciati come maltrattamenti in famiglia siano espressione di singoli atti sporadici e senza alcun nesso o invece sono costituiti da una condotta unitaria e abituale tale da generare un clima di vessazione e prevaricazione sul soggetto passivo.
Il reato di maltrattamenti in famiglia disciplinato dall’art. 572 del codice penale prevede che " ...chi maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni" .
Il bene giuridico tutelato non è solo la famiglia ma qualsiasi tipo di vincolo che lega più soggetti, infatti dottrina e giurisprudenza più recenti ritengono che l’oggetto della tutela giuridica sia l’integrità psicofisica del soggetto passivo o meglio la personalità dell’individuo.
La reiterazione degli atti lesivi attribuisce alla condotta una oggettività giuridica autonoma rispetto ai singoli atti: la condotta del maltrattare, per la sua durata e ripetitività, lede l’intera personalità, mentre il singolo atto (ingiuria, percossa, minaccia) lede l’ integrità psicofisica.
Ormai da tempo la dottrina e la giurisprudenza sono uniformi nel considerare che il termine "maltrattamenti" richieda una pluralità di atti per la perfezione del delitto. Si tratta infatti di un termine che indica un comportamento protratto nel tempo.
Secondo consolidata giurisprudenza il reato è caratterizzato da una condotta abituale, per la sua configurazione richiede una serie abituale di condotte che possono estrinsecarsi in atti lesivi dell’integrità psicofisica, dell’onore, del decoro o di mero disprezzo e prevaricazione del soggetto passivo, attuati in un arco temporale ampio, ma entro il quale possono agevolmente essere individuati come espressione di un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare o denigrare il soggetto passivo.
Invece fatti occasionali ed episodici, pur penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di reato (ingiurie, minacce, lesioni) determinati da situazioni contingenti (es. rapporti interpersonali connotati da permanente conflittualità) e come tali insuscettibili di essere inquadrati in una cornice unitaria, non possono assurgere alla definizione normativa di cui all’art. 572 c.p." (sent. Cass. del 20.01.2014 n. 2326).
Su tale scia interpretativa la giurisprudenza è da tempo costante, a titolo di esempio si indicano numerosi precedenti di giurisprudenza (sent. Cass. Sez. 6 del 13/2/2009 n. 6490, sent. Cass. Sez 6 del 2.12.2010 n. 45037).
Una sentenza più recente è la n. 30903/2015 della 6 sezione penale della Cassazione, in cui si ribadisce che "il reato di maltrattamenti integra un’ipotesi di reato necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili ovvero non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo; esso si perfeziona allorchè si realizzi un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione ex art 81 c.p."
Per ritenere raggiunta la prova dell’elemento materiale di tale reato, dunque, non possono essere presi in considerazione singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, né un eventuale precedente specifico, che può valere solo per la valutazione della personalità dell’imputato. E’ inoltre necessario che la condotta abituale di maltrattamenti sia idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile, la Cassazione ha precisato, infatti, che fatti episodici lesivi di diritti fondamentali della persona, derivanti da situazioni contingenti e particolari e che possono verificarsi nei rapporti interpersonali di una convivenza familiare, non integrano il delitto di maltrattamenti, ma conservano la propria autonomia di reati contro la persona.
In maniera prevalente si parla di dolo generico: l’unità fra i vari atti va cercata nella abitualità della condotta legata a questo elemento psicologico che va via via perfezionandosi di pari passo con la fattispecie. La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in esame non implica l’intenzione di sottoporre il convivente, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (Cass. del 18.2.2010).
E’ bene dunque, verificare se i fatti denunciati come maltrattamenti in famiglia siano espressione di singoli atti sporadici e senza alcun nesso o invece sono costituiti da una condotta unitaria e abituale tale da generare un clima di vessazione e prevaricazione sul soggetto passivo.
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