Messa alla prova per adulti e per minorenni
L'applicazione dell'istituto della messa alla prova nei confronti di imputati minori e maggiori di età: analogie e differenze

La legge n. 67 del 2014 ha esteso anche agli imputati maggiorenni la possibilità di ottenere il beneficio della messa alla prova, un istituto pensato per i minori di 18 anni e regolato dalla legge sul processo penale minorile approvata con D.P.R. n. 448 del 1988.
La messa alla prova può essere richiesta dall’imputato o dal suo difensore fin dalla fase delle indagini preliminari: l’accoglimento della domanda comporta la sospensione del procedimento per un periodo di tempo, durante il quale l’imputato deve portare avanti un programma di trattamento determinato di concerto con l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (UEPE) e reputato idoneo dal giudice. Il programma consiste innanzi tutto nello svolgimento di prestazioni lavorative a titolo gratuito in favore della collettività e nell’impegno del soggetto ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, soprattutto attraverso il risarcimento, ove possibile, del danno arrecato alla vittima. Durante lo svolgimento della prova l’imputato è affidato ai servizi sociali, e tenuto a rispettare una serie di prescrizioni, come, ad esempio, il divieto di frequentare determinati locali. Sull’andamento della prova l’UEPE relaziona periodicamente al giudice; al termine del programma di trattamento è fissata una nuova udienza per valutare l’esito della prova. Se esso è positivo il giudice dichiara con sentenza il reato estinto, altrimenti il processo riprenderà da dove si è interrotto.
La prova condotta con esito positivo è dunque una causa di estinzione del reato.
Questa conclusione vale anche nel caso in cui il beneficio sia stato concesso ad un soggetto che era minorenne al momento del fatto, ma rispetto alla messa alla prova per adulti quella per i minori si differenzia in alcuni punti sostanziali, a cominciare dal programma di trattamento che l’imputato si impegna a seguire, determinato dai servizi sociali minorili, e che può consistere nell’osservanza di prescrizioni di varia natura, quali impegnarsi per conseguire buoni risultati nello studio, o svolgere attività lavorative, sportive, sociali o di volontariato. L’intento di favorire la riparazione del danno è sempre perseguito, ma, trattandosi di minorenni, il giudice non impone un’obbligazione risarcitoria, bensì l’adozione di comportamenti volti ad eliminare le conseguenze del reato e a favorire la riconciliazione tra imputato e parte lesa.
Competenti a seguire gli imputati minorenni durante lo svolgimento della prova e a relazionare periodicamente al magistrato sono i servizi minorili per l’amministrazione della giustizia. Anche in questo caso al termine del periodo di prova si tiene un’udienza di verifica che si conclude con una sentenza declaratoria dell’estinzione del reato, se la prova ha avuto esito positivo, altrimenti il processo riprende il suo corso.
La differenza più significativa, però, riguarda i limiti di applicabilità soggettiva e oggettiva dell’istituto: per gli adulti, infatti, vi sono diverse limitazioni, quali l’inapplicabilità a coloro che sono stati dichiarati delinquenti o contravventori abituali, professionali o per tendenza, o che in passato hanno sostenuto una prova con esisto negativo o si sono visti revocare la misura per gravi trasgressioni al programma di trattamento. Inoltre, i reati per i quali gli imputati maggiorenni possono chiedere la messa alla prova sono solo quelli puniti con pena massima di quattro anni, mentre se l’imputato è minorenne questi limiti non esistono, quindi l’istituto si può applicare anche a chi sia accusato di un reato grave, nel qual caso la durata della prova è elevata da uno a tre anni.
La legge sul processo minorile ha introdotto la messa alla prova al fine di limitare il contatto, che può risultare traumatico, del minore con il sistema penale, ritenendo che la commissione di un reato anche grave da parte di un soggetto la cui personalità è ancora in formazione non sia necessariamente un sintomo di devianza, e che dunque si possa educare il ragazzo al rispetto delle leggi con una risposta sanzionatoria non lesiva del suo sviluppo psicofisico e che non lo isoli dal suo ambiente familiare e sociale (il carcere lo segregherebbe).
Applicato agli adulti l’istituto svolge essenzialmente funzioni deflattive del processo penale e di non appesantimento del sistema carcerario, che spingono lo Stato, di fronte a reati lievi, a sospendere e poi a rinunciare all’esercizio del suo potere punitivo: una rinuncia, viceversa, inammissibile per reati gravi, che, se commessi da persone ormai pienamente responsabili dei propri atti, sono indice di condotta deviante.
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