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Il Mobbing, cos'è e quando costituisce reato


Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di emarginare la persona che ne è vittima.
Il Mobbing, cos'è e quando costituisce reato

1. Cos'è il mobbing

Per “mobbing” si intende un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Pur in assenza di una legge appositamente dedicata a tale pericoloso fenomeno, diversi sono gli strumenti di tutela offerti dall’ordinamento.

Il termine “mobbing” (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “aggredire, attaccare”) è ormai da diverso tempo entrato nel linguaggio non solo giuridico, ma anche comune, per indicare un insieme di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare la persona che ne è vittima.

Inizialmente descritto e studiato da sociologi e psicologi, il fenomeno del mobbing ha in seguito trovato rilievo anche nelle aule di tribunale. In assenza di una apposita normativa, la giurisprudenza ha definito il mobbing come una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più diverse: il lavoratore che ne è vittima potrebbe ritrovarsi ad essere isolato all’interno dell’ambiente lavorativo, venendo ad esempio relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda o venendo escluso da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e altre attività; potrebbe divenire bersaglio di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili di vario genere, così come ritrovarsi al centro di una vera e propria campagna diffamatoria portata avanti nei suoi riguardi; potrebbe vedersi improvvisamente sottrarre mansioni sino a quel momento ricoperte oppure essere assegnato a mansioni inferiori e dequalificanti, o ancora, all’opposto, trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili; potrebbe trovarsi esposto a più intense ed assillanti forme di controllo da parte del datore di lavoro, ad esempio durante lo svolgimento delle proprie attività o in occasione di assenze per malattia; potrebbe vedersi privare di determinati benefit aziendali sino a quel momento goduti o vedersi rifiutare sistematicamente permessi, ferie ed altre richieste; nei casi più estremi, potrebbe essere licenziato senza alcuna motivazione; talvolta, potrebbe addirittura divenire bersaglio di violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.

Come si può percepire dai numerosi esempi appena riportati, tra le condotte riconducibili alla nozione di mobbing figurano sia comportamenti senz’altro illeciti (talora perseguibili anche sul piano penale), sia atti che isolatamente considerati risultano di per sé leciti ed anzi costituiscono spesso espressione degli ordinari poteri di direzione, controllo e disciplina spettanti al datore di lavoro. Ad unificare tali condotte, attribuendo loro natura complessivamente illecita, sono l’intento vessatorio che anima il persecutore (definito anche “mobber”) ed il carattere sistematico dell’azione, portata avanti in maniera mirata e prolungata nel tempo al fine di colpire una persona sgradita, temuta oppure non più ritenuta utile: così come le forme di aggressione, anche le motivazioni alla base del fenomeno sono evidentemente molteplici, sfaccettate e variabili da un caso all’altro.

2. Mobbing orizzontale e mobbing verticale

In base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio, è possibile individuare le seguenti tipologie di mobbing:

  • mobbing verticale, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica, dovendosi poi ulteriormente distinguere tra:
    • mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima (queste ipotesi vengono identificate anche con il termine “bossing”);
    • mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
  • mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.

3. Mobbing: gli elementi costitutivi

Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:

 
  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.

4. Mobbing: la normativa di riferimento

Nell’ordinamento italiano non esiste una disciplina specificamente dedicata al fenomeno del mobbing: ciononostante, sono diverse le norme che – tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori – consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che si sono in precedenza descritte.

livello costituzionale è possibile richiamare:

  • l’art. 2 Cost., che afferma il valore centrale e primario della persona umana, sia come individuo che come membro della società;
  • l’art. 3 Cost., che sancisce il principio di uguaglianza tra i cittadini e vieta ingiustificate discriminazioni tra di essi, attribuendo alla Repubblica il compito di attivarsi per l’effettiva realizzazione di tale obiettivo;
  • l’art. 4 Cost., secondo cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto;
  • l’art. 32 Cost., che individua la salute come fondamentale diritto dell’individuo e come interesse della collettività;
  • l’art. 35 Cost., in base al quale la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni;
  • l’art. 41 Cost.,, secondo cui l’iniziativa economica privata, pur libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

A livello di legge ordinaria, vengono in rilievo le seguenti norme del codice civile:

  • l’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che, secondo le particolarità dell’attività svolta, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro;
  • l’art. 2103 c.c., che disciplina la prestazione dell’attività lavorativa da parte del lavoratore, individuando le ipotesi e le modalità con cui può procedersi ad un mutamento delle mansioni originariamente attribuite;
  • gli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali esigono che le parti di ogni rapporto contrattuale agiscano comportandosi reciprocamente secondo correttezza e buona fede;
  • l’art. 2043 c.c., che sancisce il generale principio del neminem laedere, in base al quale cioè qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno;
  • l’art. 2049 c.c., che chiama il datore di lavoro a rispondere dei danni cagionati dal fatto illecito commesso dal proprio dipendente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.

La figura del lavoratore trova inoltre tutela anche in altre fonti:

  • la L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), il cui art. 15, in particolare, sancisce la nullità di patti o atti diretti a realizzare forme di discriminazione sul luogo di lavoro;
  • il D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), i cui artt. 25 e seguenti sono specificamente dedicati al contrasto delle discriminazioni nei luoghi di lavoro;
  • il D.Lgs. 81/2008 (Testo unico per la sicurezza sul lavoro), il cui art. 28 impone di considerare tra i rischi per la salute dei lavoratori anche quelli derivanti da condizioni di stress lavoro-correlato.

5. Mobbing: può costituire reato?

Non esiste nella legislazione vigente uno specifico reato di mobbing. Tuttavia, considerata la varietà di forme che le condotte persecutorie possono assumere nei casi concreti, alcuni dei comportamenti posti in essere dal mobber potrebbero talvolta integrare fattispecie criminose previste dal codice penale a tutela dell’incolumità individuale, dell’onore, della libertà personale e morale, ecc. .

Sono quindi stati ipotizzati e talvolta effettivamente riconosciuti dalla giurisprudenza i seguenti reati:

  • maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), a condizione però che le condotte vessatorie si siano verificate all’interno di contesti lavorativi di dimensioni così ridotte da far ritenere che tra le parti coinvolte effettivamente sussistesse un rapporto di tipo para-familiare: un rapporto caratterizzato cioè da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (il pensiero va a piccole imprese o esercizi commerciali a conduzione familiare, ma anche a studi professionali od uffici di modeste dimensioni nell’ambito dei quali possono in concreto verificarsi le condizioni appena evidenziate);
  • violenza privata (art. 610 c.p.), allorché la condotta vessatoria abbia avuto per effetto quello di costringere la vittima ad un determinato comportamento (ad esempio accettare svantaggiosi mutamenti delle proprie condizioni di lavoro);
  • minaccia (art. 612 c.p.), allorché il mobber arrivi a prospettare alla vittima il pericolo di future ed ingiuste conseguenze dannose;
  • lesioni personali dolose o colpose (rispettivamente artt. 582 e 590 c.p.), nel caso in cui la condotta aggressiva arrivi a ledere l’integrità psicofisica del lavoratore che ne è vittima (in ipotesi di mobbing orizzontale, ad esempio, il reato doloso dovrà essere contestato al collega di lavoro che abbia materialmente posto in essere la violenza da cui è scaturita la lesione; la fattispecie colposa potrà invece essere addebitata al datore di lavoro che non abbia adeguatamente vigilato sulle condizioni di lavoro e sulla salute dei dipendenti, a meno che non sussistano elementi per configurare un suo concorso – anche solo di tipo morale – nel reato doloso posto in essere da altro soggetto);
  • violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), nei casi in cui la condotta vessatoria assuma forme in grado di rientrare nell’ampia nozione di atti sessuali elaborata dalla giurisprudenza (dovendosi in essa ricomprendere anche azioni quali baci, abbracci, palpeggiamenti e più in generale ogni atto comunque coinvolgente la corporeità della persona offesa, posto in essere con la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente);
  • molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.), fattispecie più lieve in grado di applicarsi a casi in cui la condotta mobbizzante abbia assunto contorni più sfumati e meno gravi rispetto alle altre ipotesi sin qui descritte;
  • abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), configurabile nel settore del pubblico impiego allorché le condotte vessatorie siano poste in essere da soggetti muniti della qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.

6. Il risarcimento dei danni

Il lavoratore vittima di mobbing ha diritto al risarcimento dei danni subiti. Le modalità per ottenere il risarcimento variano a seconda del tipo di responsabilità che il danneggiato intende far valere in giudizio: le condotte mobbizzanti possono infatti dar luogo a profili di responsabilità contrattuale od extracontrattuale, con tutte le differenze di disciplina che ne derivano.

 

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