Nessun contributo alla ex moglie che lavora in nero

In sede di separazione, il Tribunale di Rovigo stabiliva a carico del marito un contributo al mantenimento della moglie di euro 150,00 mensili.
Lo stesso Tribunale, a distanza di sei anni, pronunciando il divorzio tra i due coniugi, raddoppiava il contributo, stabilendolo in euro 300,00 mensili.
L'ex marito impugnava la sentenza avanti alla Corte d'Appello di Venezia, la quale confermava integralmente la decisione del Tribunale. Secondo il giudice dell'Appello, la situazione economica del marito, che svolgeva l'attività di autista, era migliore rispetto a quella della moglie: la donna, infatti, mentre al tempo della separazione risultava regolarmente assunta presso un salone di parrucchiera-estetista, all'epoca del divorzio esercitava irregolarmente prestazioni di manicure.
L'uomo ricorreva, quindi, in Cassazione, ritenendo errato il ragionamento della Corte d’appello la quale, sebbene nel corso del giudizio fosse stato provato che la ex moglie possedeva capacità lavorativa e reddituale, aveva ritenuto che l'occupazione saltuaria non fosse in grado di consentire un tenore di vita almeno analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Tale valutazione aveva addirittura portato ad un incremento dell'assegno rispetto alla separazione.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5603 del 28.2.2020, ha accolto il ricorso del marito, condividendo le critiche mosse alla sentenza d’appello.
L'assegno di divorzio, infatti, ha una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa.
Per valutare se vi sia il diritto a percepirlo, occorre svolgere una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente (la moglie, nel caso di specie) alla conduzione della vita famigliare e alla formazione del patrimonio comune della famiglia e personale dell'ex coniuge, il tutto tenuto conto della durata del matrimonio e dell'età dell'avente diritto.
La Corte d'Appello non si è attenuta a tali principi.
L'inidoneità del guadagno della ex moglie a consentirle un tenore di vita analogo a quello in costanza di matrimonio non ha rilevanza. Al contrario, ha rilevanza il fatto che la ex moglie fosse in grado di conseguire un guadagno, poiché ciò dimostra in capo alla donna sia una capacità lavorativa sia una capacità reddituale (sebbene non sia chiaro l’effettivo ammontare dei guadagni, dato che il giudice del merito non ha disposto indagini).
La Suprema Corte, richiamando i principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018, ricorda, quindi, che "La natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, conduce, quindi, al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente, non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate. La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata, peraltro, alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi".
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