Nullità del licenziamento a causa del matrimonio
Normativa, deroghe al divieto ed estendibilità della tutela anche al sesso maschile
L’art. 1 della Legge n. 7/1963, successivamente tradotto nell’art. 35 del codice delle pari opportunità (D.lgs 198/2006), stabilisce che:
sono sempre nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio.
Si presume che il licenziamento della dipendente, nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione, sia stato disposto per causa di matrimonio. A tale conclusione si giunge anche se il licenziamento è motivato con il superamento del periodo massimo di comporto per malattia (Cass. 09/04/2002 n. 5065).
Il divieto di licenziamento attuato a causa di matrimonio opera, dunque, in forza di una presunzione legale e non è subordinato ad alcun obbligo di comunicazione (Cass. 31/08/2011 n. 17845).
Il datore di lavoro può superare la presunzione di nullità solo provando che il licenziamento è avvenuto per (comma 5, art. 35 D.lgs 198/2006):
- colpa della lavoratrice, costituente giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell'attività dell'azienda;
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;
- risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.
Tali ipotesi sono da intendersi tassative con la conseguenza che la lavoratrice durante il periodo di matrimonio, non può essere assoggettata alle procedure di "messa in mobilità" o di licenziamento collettivo per riduzione del personale ex art. 4 legge 223/1991 salvo il caso di cessazione dell’attività.
Non è stata ritenuta sufficiente l’allegazione datoriale di una esternalizzazione dei servizi in cui è occupata la lavoratrice sposata, con soppressione del posto di lavoro sebbene il preavviso sia partito prima del termine annuale e l’operatività del recesso sia successiva al decorso di tale termine (Cassazione Sezione Lavoro, 27055/2013). I giudici della Corte Suprema hanno infatti osservato che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato "deciso" nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la decisione di recesso sia stata attuata.
Una recente ordinanza del Tribunale di Milano (3 giugno 2014 Dott. Atanasio) ha affermato che il divieto di licenziamento previsto dall’art. 35 d.lgs 198/2006 deve essere esteso anche al sesso maschile.
Sostiene infatti il Giudice che, sebbene la norma parli solo di lavoratrici, la limitazione al gentil sesso contrasta con il principio di parità di trattamento fra sessi sancito dalla direttiva 76/207/CE la quale all’art. 2 dispone che: "Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia".
Tale principio, peraltro, ha trovato applicazione nel codice delle pari opportunità che all’art. 1 stabilisce che "Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo quello di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo"; ed al comma secondo dispone poi che "La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione".
Quindi, in osservanza del principio del primato della norma comunitaria su quella nazionale, la tutela va estesa, in via interpretativa, anche al dipendente di sesso maschile.
Del resto, secondo il Tribunale di Milano, l’uso del femminile nella norma si spiega se riferito al periodo storico in cui è stato introdotto il divieto. Negli anni ’60 solo la donna era destinataria di una serie di tutele legate alla maternità (astensione dal lavoro, permessi, divieto di licenziamento). La ratio della norma originaria era quella di evitare che il datore di lavoro potesse licenziare una dipendente che, soprattutto secondo la mentalità dell’epoca, al matrimonio avrebbe quanto prima fatto seguire la gravidanza, con tutte le tutele e relativi costi che ne sarebbero derivati.
Considerato l’attuale riconoscimento al lavoratore di benefici e tutele legati alla paternità, non potendosi ammettere un trattamento discriminatorio tra i due sessi, alla luce di quanto sancito dalla direttiva comunitaria i cui principi sono stati mutuati nel codice delle pari opportunità si deve propendere per l’estensione del divieto sancito dall’art. 35 anche al lavoratore di sesso maschile.
Avv. Edoardo Vecellio
sono sempre nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio.
Si presume che il licenziamento della dipendente, nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione, sia stato disposto per causa di matrimonio. A tale conclusione si giunge anche se il licenziamento è motivato con il superamento del periodo massimo di comporto per malattia (Cass. 09/04/2002 n. 5065).
Il divieto di licenziamento attuato a causa di matrimonio opera, dunque, in forza di una presunzione legale e non è subordinato ad alcun obbligo di comunicazione (Cass. 31/08/2011 n. 17845).
Il datore di lavoro può superare la presunzione di nullità solo provando che il licenziamento è avvenuto per (comma 5, art. 35 D.lgs 198/2006):
- colpa della lavoratrice, costituente giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell'attività dell'azienda;
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta;
- risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.
Tali ipotesi sono da intendersi tassative con la conseguenza che la lavoratrice durante il periodo di matrimonio, non può essere assoggettata alle procedure di "messa in mobilità" o di licenziamento collettivo per riduzione del personale ex art. 4 legge 223/1991 salvo il caso di cessazione dell’attività.
Non è stata ritenuta sufficiente l’allegazione datoriale di una esternalizzazione dei servizi in cui è occupata la lavoratrice sposata, con soppressione del posto di lavoro sebbene il preavviso sia partito prima del termine annuale e l’operatività del recesso sia successiva al decorso di tale termine (Cassazione Sezione Lavoro, 27055/2013). I giudici della Corte Suprema hanno infatti osservato che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato "deciso" nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la decisione di recesso sia stata attuata.
Una recente ordinanza del Tribunale di Milano (3 giugno 2014 Dott. Atanasio) ha affermato che il divieto di licenziamento previsto dall’art. 35 d.lgs 198/2006 deve essere esteso anche al sesso maschile.
Sostiene infatti il Giudice che, sebbene la norma parli solo di lavoratrici, la limitazione al gentil sesso contrasta con il principio di parità di trattamento fra sessi sancito dalla direttiva 76/207/CE la quale all’art. 2 dispone che: "Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia".
Tale principio, peraltro, ha trovato applicazione nel codice delle pari opportunità che all’art. 1 stabilisce che "Le disposizioni del presente decreto hanno ad oggetto le misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo quello di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo"; ed al comma secondo dispone poi che "La parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi compresi quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione".
Quindi, in osservanza del principio del primato della norma comunitaria su quella nazionale, la tutela va estesa, in via interpretativa, anche al dipendente di sesso maschile.
Del resto, secondo il Tribunale di Milano, l’uso del femminile nella norma si spiega se riferito al periodo storico in cui è stato introdotto il divieto. Negli anni ’60 solo la donna era destinataria di una serie di tutele legate alla maternità (astensione dal lavoro, permessi, divieto di licenziamento). La ratio della norma originaria era quella di evitare che il datore di lavoro potesse licenziare una dipendente che, soprattutto secondo la mentalità dell’epoca, al matrimonio avrebbe quanto prima fatto seguire la gravidanza, con tutte le tutele e relativi costi che ne sarebbero derivati.
Considerato l’attuale riconoscimento al lavoratore di benefici e tutele legati alla paternità, non potendosi ammettere un trattamento discriminatorio tra i due sessi, alla luce di quanto sancito dalla direttiva comunitaria i cui principi sono stati mutuati nel codice delle pari opportunità si deve propendere per l’estensione del divieto sancito dall’art. 35 anche al lavoratore di sesso maschile.
Avv. Edoardo Vecellio
Articolo del: