Oltre al mobbing esiste anche lo straining
Accanto alla fattispecie del mobbing, la più recente giurisprudenza ha introdotto il concetto di straining, qualificato come "una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è, rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità. Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante".
La prima sentenza di merito ad avere illustrato i contorni della fattispecie è stata emessa dal Tribunale di Bergamo (sentenza n.286/2005); in tale sentenza il giudice del lavoro ha precisato che in ipotesi di straining, a differenza del mobbing, i comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro non presentano i caratteri della frequenza e della ripetitività, potendosi concretizzare anche in una sola azione ostile nei confronti del lavoratore.
Invero, assumono rilevanza quelle situazioni lavorative particolarmente "stressanti", quali, ad esempio, episodi di dequalificazione e/o isolamento professionale, che generano nel destinatario una forma di pressione superiore a quella connaturata alla natura stessa del lavoro svolto ed alle normali interazioni organizzative.
Nel 2013 è intervenuta in materia di straining anche la Corte di Cassazione con sentenza del 03.07.2013 n.28603, accogliendo il ricorso di un dipendente di banca, il quale era stato relegato a lavorare in un "vero e proprio sgabuzzino, spoglio e sporco, con mansioni dequalificanti, meramente esecutive e ripetitive".
La sentenza in questione ha avuto il pregio di fornire la esatta qualificazione giuridica dello straining, in passato impropriamente identificato alla stregua del più complesso mobbing, del quale, invece, è da considerarsi un forma peculiare ed attenuata.
Infatti, mentre gli elementi costitutivi del mobbing sono necessariamente la sistematicità, la frequenza e la regolarità delle vessazioni, nello straining il lavoratore è destinatario di sporadiche azioni ostili e vessatorie, provenienti dai superiori gerarchici o anche soltanto da colleghi di pari grado, che finiscono per cagionare gli stessi danni del mobbing (disturbo post-traumatico da stress) che si ripercuotono negativamente sulla qualità della vita del lavoratore.
Assai esplicativa è la recente sentenza del Tribunale di Aosta (01.10.14) nella quale il giudice del lavoro ha recepito proprio la qualificazione giuridica dello straining, statuendo che "se il datore di lavoro non impedisce che alcuni dipendenti prendano di mira un loro collega, attraverso condotte persecutorie e volgari consistenti nell'insultarlo ripetutamente e nell'isolarlo dal resto del team, e da ciò deriva una situazione di malattia psichica che porta il dipendente al licenziamento per superamento del periodo di comporto, costui ha diritto al risarcimento dei danni e alla reintegrazione nel posto di lavoro".
Al centro della vicenda vi è stata una donna che era stata assunta come commessa presso un grande negozio di abbigliamento, la quale si era ritrovata, suo malgrado, a ad operare in un ambiente di lavoro caratterizzato da dispetti, invidia e antipatie reciproche tra dipendenti ed era diventata vittima di insulti quotidiani, condotte persecutorie grossolane e volgari da parte degli altri colleghi e isolamento.
Tali condotte erano fatti conosciuti dal datore di lavoro in quanto il capo area della donna era presente nel negozio 2 o 3 volte a settimana e tra i suoi compiti vi era anche quello di curare i rapporti tra il personale.
Il giudice in primo luogo ha precisato che la persecuzione subita dalla lavoratrice è qualificabile come straining e non come mobbing; infatti, sussiste il primo quando vi è una «situazione di stress forzato sul posto di lavoro caratterizzata anche da una durata costante», nonché discriminante e che colloca la vittima in posizione di inferiorità; si configura, invece, il mobbing quando gli stessi comportamenti sono «dolosamente orchestrati dal datore di lavoro».
Tuttavia, non ci sono sostanziali differenze per la vittima se il datore di lavoro è comunque a conoscenza dei fatti e ciononostante non si adopera per far cessare i comportamenti scorretti.
In secondo luogo, il giudice ha riconosciuto proprio nello straining la causa della malattia da stress sofferta dalla donna, ordinando quindi all’azienda la sua reintegrazione nel posto di lavoro in quanto il licenziamento è avvenuto in seguito ad una condotta illegittima del datore di lavoro o, comunque, ad esso addebitabile.
Avv. Sigmar Frattarelli
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