Oltre lo Statuto dei lavoratori…una sentenza tortuosa non è giustizia
Confrontando i dati sulle nuove assunzioni nei primi 9 mesi nel 2019 con i primi 9 mesi del 2020 viene fuori un quadro drammatico in cui ci sono state 1 milione e 900 mila assunzioni in meno. Sono calati anche i licenziamenti, circa 1 milione e 100 mila in meno.
Da questo quadro viene fuori un saldo negativo di circa 815 mila famiglie che passeranno un natale più complicato del solito. L’aspetto che più inquieta, però è la riduzione dei licenziamenti che risulta ottenuto bloccando i licenziamenti ordinari, che altrimenti sarebbero stati decisamente più numerosi.
Poiché il trend non è migliorato nell’ultimo trimestre dell’anno, il 2020 si concluderà con oltre 1 milione di posti di lavoro in meno rispetto al 2019 e nel 2021 la situazione non migliorerà con alcuni analisti che si aspettano un ulteriore peggioramento di 300/500 mila unità in meno, in virtù, proprio, della revoca del blocco dei licenziamenti.
I dati, forse, ritorneranno in crescita nel 2022. Intanto, però, proprio a proposito di lavoratori, tempo fa la suprema Corte di Cassazione pronunciandosi, a SSUU in via definitiva, sul rogo della Thyssenkrupp ha eliminato dalla fattispecie di reato, contestata agli imputati, la variabile del dolo riportando solo la responsabilità dei dirigenti industriali all’omicidio colposo ed eliminando, quindi, la volontarietà dell’azione degli imputati.
La Cassazione ha eliminato, quindi, la tesi di una azione volontaria di chi “pur sapendo il rischio che corrono in determinate circostanze i propri dipendenti, fa egualmente correre quei pericoli, pur di avere il prodotto che chiede”.
Le SSUU, peraltro, hanno confermato la responsabilità degli imputati ma hanno annullato, senza rinvio, una parte della sentenza di appello che riguardava una delle circostanze aggravanti contestate dagli imputati.
Non fu, quindi, omicidio volontario, ma colposo, anche se la colpevolezza degli imputati risulta essere stata accertata. Ed essendo appunto omicidio colposo, le pene andranno conseguentemente rideterminate.
Si ricordi, per dovere di cronistoria giudiziaria, che in appello la corte d’assise d’appello aveva escluso l’ipotesi di omicidio volontario contestata mentre la sentenza di primo grado, per la prima volta, aveva contestato l’omicidio volontario in un caso di infortunio mortale sul lavoro (per la sentenza d’appello si era trattato di un omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente sanzionando con condanne tra le più pesanti mai irrogate).
I morti non sarebbero, pertanto, vittima di un omicidio volontario ma di un omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente “ove i dirigenti dell’acciaieria torinese operarono con una grande sconsideratezza scegliendo di non adeguare alle norme di sicurezza lo stabilimento destinato alla chiusura entro pochi mesi”.
Il verdetto evidenzia, infatti, che i manager e i dirigenti chiamati a rispondere facevano affidamento sulla capacità dei lavoratori di bloccare incendi, che quasi quotidianamente si verificavano, poiché “chi agisce nella speranza di evitare un evento evidentemente, se l’evento si verifica, non può averlo voluto”.
Certo, a dire degli ermellini, c’è stata una grande sconsideratezza nella gestione dello stabilimento dove si è voluto continuare a produrre senza adeguate misure di sicurezza, ma risparmiando quanto più possibile in vista dello smantellamento dell’impianto che, peraltro, sarebbe dovuto avvenire a breve.
La colpa vera è stata, quindi, quella di non aver previsto tutte le eventualità che sarebbero potute accadere. Senza le omissioni dolose di cautele degli infortuni con il solo omicidio colposo è improbabile che questo processo tornerà ad essere un precedente storico per le vicende degli infortuni sul lavoro rischiando, anzi, di diventare un precedente al ribasso per il processo “eternit” che dovrà approdare, proprio in cassazione, entro la fine dell’anno.
La pronuncia sul caso Thyssenkrupp paradossalmente, nella sua ratio, annulla la ratio contenuta in un’altra pronuncia avutasi, sempre ad opera delle SSUU, e basata, invece, proprio sulla condanna dei cosiddetti “ritmi di produzione” dei tempi moderni.
Le colpe imputate, infatti, nel caso del Vajont, risultavano nate proprio dalla necessita di creare un rapido sviluppo, in aree rimaste economicamente arretrate, tramite le “scienze esatte” ma senza tenere conto del ciclo di sviluppo cosiddetto “sostenibile”, cioè basato su una gerarchia specifica tra il valore della vita umana ed il valore del profitto.
Allora, seguendo quel percorso logico, si statuì che il disastro non fu una catastrofe naturale ma fu un vero e proprio disastro “prevedibile, previsto ed imminente”. Anche allora in nome del progresso tecnico, dell’esigenza produttiva, del profitto erano state fornite informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell’attività sismica in esame, venendo meno ai doveri proprio di valutazione del rischio connessi alla loro qualità ed alla loro funzione e volti alla previsione, alla prevenzione ed ai doveri di informazione chiara, corretta e completa.
Per il Vajont non si fece un “processo alla scienza” ma si contestò agli uomini l’avere effettuato una valutazione del rischio sismico in violazione delle regole di analisi, previsione e prevenzione disciplinate dalla legge per interessi meramente economici.
Allora il primato della giustizia era stato basato sulla logica del diritto e sulla convinzione della legalità e della giustizia, fondata sul rigore etico e sulla correttezza professionale.
Nel caso del Vajont, infatti, il concetto di giustizia era stato sinonimo di civiltà uniformando il concetto di giusto, che equivaleva a quello di legale, a quello di “giustizia secondo diritto” che significava coscienziosa applicazione delle norme dell’ordinamento vigente.
Nei due casi di specie, sebbene in maniera e con esiti diversi, si è cercato di colpire gli esponenti di società industriali che avevano posto il primato del progresso sul valore della vita umana.
Nel 2020 è stato celebrato il cinquantenario dello statuto dei lavoratori con cui venne formalizzato un nuovo sistema di garanzie dei lavoratori basato proprio sul riconoscimento del primato del valore umano del lavoratore su quello economico del progresso e del profitto, connesso al profitto.
Oggi, più che mai, è necessario un adeguamento dello statuto dei lavoratori alle nuove forme di subordinazione e soprattutto alle nuove figure di lavoro autonomo meritevoli di tutela.
Nelle nuove realtà dello smartworking e della globalizzazione urge immaginare e tutelare le nuove prestazioni lavorative connubiando libertà ed equità sociale. Serve un nuovo statuto dei lavoratori per l’economia 4.0 che il futuro post covid ha già creato.
Il politologo statunitense John Rawls nella sua opera del 1971 “una teoria della giustizia” muoveva una forte critica nei confronti della predominante dottrina utilitaristica propugnando, invece, una concezione di giustizia che si basasse sull’idea che tutti i beni sociali principali debbano essere distribuiti in modo eguale, ma una distribuzione veramente eguale può esserci soltanto se si avvantaggiano i più svantaggiati.
L’argomento intuitivo a favore della teoria della “giustizia come equità” riguardava il principio della “differenza”, che mirava a modellare una distribuzione giusta di risorse, una volta garantita, con il principio della teoria della “iscrizione delle uguali libertà fondamentali a ciascuno”.
È proprio il mondo delle differenze che può rendere maggiore o minore il valore dell’eguale libertà per noi. Ed è proprio il nuovo codice del lavoro che dovrà tutelare la classe lavoratrice, intesa come la più svantaggiata nella contrapposizione degli interessi di parte della modernità.
Certo la sentenza della Corte di Cassazione n. 1633/2020 ha segnato il solco ma la strada delle tutele sarà ancora “lunga” nel mondo dei tempi “contratti” del profitto. Due pesi e due misure anche se, sempre, una sentenza tortuosa non è mai giustizia…
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