Omicidio colposo al medico che somministra farmaci rischiosi


Responsabilità medica: condannato alla reclusione per omicidio colposo un diabetologo per aver prescritto farmaci pericolosi nel corso di una dieta dimagrante
Omicidio colposo al medico che somministra farmaci rischiosi

La Suprema Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, con la recente sentenza n. 8086 del 25 febbraio 2019, ha condannato in via definitiva un medico specialista, endocrinologo e diabetologo, a due anni di reclusione per omicidio colposo, per aver causato la morte di una paziente con la somministrazione di un farmaco rischioso a base di fendimezatrina.

 

Il capo d’imputazione: omicidio colposo

Lo specialista era imputato del reato di cui all’art. 589 cod. pen. perché, in qualità di medico endocrinologo e diabetologo che assisteva una paziente nel corso della dieta dimagrante a cui era sottoposta, sia per colpa generica sia per colpa specifica derivante dalla violazione di disposizioni normative, ne cagionava la morte.

 

Le condotte colpose imputate al medico

Le condotte colpose imputate allo specialista endocrinologo e diabetologo sono:

- l’aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimezatrina nonostante il divieto di prescrizione e somministrazione di tale farmaco disposto dal D.M. del 24 gennaio 2000;

- l’aver prescritto alla propria paziente il farmaco fendimezatrina pur conoscendo i rischi che l’uso di tale farmaco poteva determinare (tra cui l'aumento della pressione arteriosa, sia diastolica che sistolica, oltre che effetti anoresizzanti, dopanti e tossici), tali da indurre lo stesso Ministero della Salute, con Decreto Ministeriale del 02/08/2011 (pubblicato in G.U. il 04/08/2011) a disporne l’inserimento nella tabella I del d.P.R. n. 309/1990 e, pertanto, a vietarne la vendita in qualsiasi forma (industriale e galenica);

- l’aver violato le disposizioni dettate dal D.M. 18 settembre 1997 sulla durata massima trimestrale del trattamento farmacologico;

- l’aver prescritto i farmaci fendimezatrina, fluoxetina e clorazepato assieme ad altri medicinali ad effetto lassativo e diuretico a una paziente il cui stato psico-fisico era debilitato per aver perso, nel corso degli ultimi sei mesi, circa 40 kg di peso, omettendo di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari per valutare l’opportunità di prescrivere i farmaci in associazione e di valutare i rischi di insorgenza di eventuali complicanze. Detti farmaci, assunti nelle ore immediatamente antecedenti al decesso, determinavano la morte della paziente a seguito di un’azione aritmogena sul miocardio e di uno squilibrio idroelettrico.

Nel ricorrere in Cassazione, l’imputato contestava perizia in atti, le cui conclusioni sarebbero state, a suo dire, assolutamente insufficienti a fondare la sua responsabilità penale per essere le stesse assai incerte sia sul fronte del nesso eziologico che su quello della colpevolezza.

 

La sentenza di legittimità della Corte di Cassazione

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, ha respinto il ricorso, osservando anzitutto che, proprio sulla scorta delle conclusioni peritali, la morte della paziente fosse stata provocata dall’assunzione prolungata della fendimezatrina, in associazione ad altre sostanze farmacologicamente attive che avevano innescato un processo fatale in una paziente che presentava già fattori di rischio.

L’evento, infatti, risultava evitabile: a giudizio dei periti la paziente “con elevato grado di probabilità logico-razionale” non sarebbe deceduta ove non avesse assunto le sostanze prescritte dall'imputato, “nelle forme e nella cronologia al dunque registrate”, attesa l’assenza di “chiavi di lettura alternative a quella complessivamente identificata come riconducibile al meccanismo di azione proprio dei simpaticomimetici”.

La valutazione del giudice, dunque, si collocava, per i Supremi Giudici, all’interno dell’elaborazione giurisprudenziale formatasi a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione del luglio dell’anno 2002 (Cass. pen., Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, CED Cass. 222138).  

Nel ricostruire il nesso di causalità tra la condotta del sanitario e il decesso della paziente, la Corte di cassazione ha ampiamente ripercorso i principi che reggono il relativo accertamento ricordando che l’elevata probabilità logica richiesta per porre giuridicamente due fatti in rapporto di causa/effetto non esprime altro che la forte corroborazione dell’ipotesi sulla base delle concrete acquisizioni probatorie disponibili.

Quanto, poi, alla sussistenza della colpa del medico, la morte della paziente è stata ritenuta ad egli imputabile, poiché l’evento era non solo evitabile, ma anche prevedibile proprio in ragione della pericolosità del farmaco e dalla presenza nella paziente di fattori di rischio che aumentavano la possibilità di insorgenza di effetti collaterali, anche mortali, derivanti dall’assunzione dei farmaci prescritti. In linea generale, quindi, il medico non è esente da colpa ove ometta un’attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi ed ometta, parimenti, il costante controllo, nel corso della cura, delle condizioni del paziente.

Infatti, dal punto di vista soggettivo per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate delle norme cautelari e l’evento sia percepibile, ovvero riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa.

In definitiva, l’evento morte della paziente ha costituito la concretizzazione del rischio che la cautela del medico, sulla base delle proprie leges artis, era chiamata a governare ed evitare, ragion per cui il ricorso del medico è stato rigettato e la sentenza d’appello della Corte territoriale, con la condanna dello specialista a due anni di reclusione per omicidio colposo, confermata.

 

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di Avv. Walter Massara

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