Ospedale erra la diagnosi? Paga ogni conseguenza.
Breve commento alla sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 3420/2015
Con la sentenza in commento la Corte d'Appello milanese ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Milano n. 7943/2011 con la quale era stato affrontato un complesso caso di responsabilità medica concernente, in particolare, la tematica della ripartizione della colpa tra l'Ente ospedaliero che aveva formulato una ipotesi diagnostica errata e l'Istituto che, fidandosi ciecamente di tale diagnosi, operava successivamente il paziente asportando un polmone poi risultato sano.
In sostanza il primo Ente ospedaliero aveva ipotizzato la presenza di un mesotelioma di tipo sarcomatoso ed aveva formulato una diagnosi infausta consigliando al paziente di rivolgersi ad un Istituto di alta specializzazione al fine di ottenere le cure più adeguate. Tale Istituto, tuttavia, non sottoponeva il paziente ad ulteriori approfondimenti diagnostici, non valutava se lo stesso fosse o meno peggiorato, non eseguiva alcun esame specifico ma si "limitava" a ricoverarlo e ad asportare un polmone sano.
Solo dopo tale intervento demolitivo al paziente veniva comunicato che "fortunatamente" non era affetto da alcun mesotelioma di tipo sarcomatoso e che poteva riprendere la sua vita "normale", pur in mancanza di un polmone. Peccato che durante i giorni trascorsi tra la formulazione dell'errata ipotesi diagnostica e tale "bella notizia" il povero paziente aveva subito la totale asportazione di un polmone con conseguenze in termini di danno biologico e patrimoniale ben immaginabili.
Orbene a parere di chi scrive la particolarità della fattispecie è proprio il fatto che, secondo il Giudice di prime cure, con decisione poi confermata dalla Corte d'Appello, l'accertamento peritale eseguito in corso di causa aveva dimostrato con chiarezza che non poteva essere ritenuto esigibile un diverso comportamento da parte dei sanitari che asportavano il polmone del paziente in ragione della necessità di non procrastinare un intervento di tale portata e della non opportunità di ripetere esami strumentali (ovvero un prelievo bioptico) che avrebbero rappresentato, a loro giudizio, un rischio per la sua salute (anche non si comprende quale rischio in concreto).
Così veniva ritenuto esclusivamente responsabile per i danni cagionati solo ed unicamente l'Ente ospedaliero che aveva formulato la diagnosi mentre l'Istituto specializzato nella cura delle patologie gravi come quella ipotizzata veniva considerato esente da qualsivoglia colpa in quando non poteva pretendersi una condotta differente da quella tenuta.
Orbene il Giudice di prime cure richiamava, a sostegno della sua decisione, la sentenza della Suprema Corte n. 2360 del 02/02/2010 a detta della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute anche se indipendenti dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest'ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti la esclusiva efficienza causale di una di esse.
Tale sentenza trattava proprio un caso in cui una dalle cause consisteva in una omissione asserendo che la valutazione relativa alla presenza del nesso causale tra omissione ed evento presuppone che si accerti che l'azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea ad impedire l’evento danno ovvero a ridurne le conseguenze; e non può esserne esclusa l’efficienza soltanto perché sia incerto il suo grado di incidenza causale.
Ci si chiede, pertanto, se nel caso di specie, la condotta dell'azienda ospedaliera che si limitava a fidarsi della ipotesi diagnostica formulata presso un altro ente di cura asportando un polmone sano in assenza di un mesotelioma pleurico, non andava valutata con maggior rigore da parte del giudicante e ciò a prescindere dalle conclusioni "probabilistiche" formulate dall'elaborato peritale.
Non solo. Dopo aver completamente escluso la responsabilità dell'Istituto che aveva asportato il polmone determinando un danno biologico nella misura del 45% con pari incidenza sulla capacità lavorativa specifica, i Giudici milanesi ritenevano però non provata la domanda risarcitoria del danno patrimoniale e si limitavano a personalizzare il danno non patrimoniale patito dall'attore nella misura del 10%.
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