Pensione integrativa, come e perché investire per il futuro


La previdenza complementare è essenziale per conservare lo stesso tenore di vita arrivati alla pensione
Pensione integrativa, come e perché investire per il futuro

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa

La previdenza complementare è una forma di previdenza aggiuntiva a quella obbligatoria erogata dall’Inps una volta raggiunta l’età pensionabile e che si affianca a quest’ultima (ma senza sostituirla) per conservare, una volta in pensione, lo stesso tenore di vita goduto durante gli anni di attività lavorativa.

La previdenza complementare rappresenta il cosiddetto “secondo pilastro” della previdenza, di natura facoltativa e volontaria, che si affianca al “primo pilastro” rappresentato dalla previdenza obbligatoria erogata dal sistema pubblico di base.

A differenza della previdenza obbligatoria, quella complementare si basa su un sistema di finanziamento a capitalizzazione. Ciò significa che ognuno, in maniera autonoma, ottiene una pensione integrativa in base a quanto versa e a quanto ammonta il rendimento sul capitale versato. In altre parole, ciascuna persona può accantonare quote su un fondo pensione che vengono investite nel mercato azionario, obbligazionario, in titoli di Stato o in fondi comuni di investimento ecc. e, alla scadenza, ottenere il montante del capitale versato aumentato dell’eventuale rendimento ottenuto dalla gestione finanziaria.
Invece, la previdenza obbligatoria, si basa sul criterio della “ripartizione”, ovvero i contributi di tutti i lavoratori servono a pagare le pensioni di tutti i pensionati.

Al raggiungimento dell’età pensionabile, infine, è possibile usufruire di rate pensionistiche mensili in aggiunta all’assegno pensionistico, oppure ritirare il montante in un’unica soluzione.

La normativa di riferimento è il D.lgs. del 5 dicembre 2005 n° 252 per i lavoratori privati, mentre per il personale della pubblica amministrazione si deve fare ancora riferimento al D.lgs. 124/1993.

 

 

L’importanza della previdenza complementare

La "ratio" della previdenza complementare (il cosiddetto secondo pilastro) è l'assunto che la previdenza pubblica sarà "insufficiente" a colmare il "gap" tra l’importo dell’ultimo stipendio percepito e la pensione erogata dallo Stato. E tale scostamento è aumentato negli ultimi anni.

Negli anni ’70, infatti, il sistema pensionistico in Italia si basava sul cosiddetto “patto intergenerazionale”: chi lavorava versava i contributi previdenziali che servivano a sostenere i versamenti pensionistici di chi era già in pensione. A ciò si deve aggiungere che il modello pensionistico adottato era quello “retributivo”, ovvero la pensione era calcolata in base alla media degli stipendi percepiti negli ultimi cinque anni di attività lavorativa moltiplicata per un coefficiente compreso tra il 2% e lo 0,9% annuo in base al numero degli anni di contribuzione e all’età del lavoratore.

Tale meccanismo, però, ha mostrato con il tempo la sua insostenibilità a causa dell’andamento demografico e sociale. Da una lato, l’allungamento dell’aspettativa di vita e la contrazione delle nascite hanno modificato il rapporto tra lavoratori attivi (che “pagavano” le pensioni) e pensionati (in costante aumento). Dall’altro, la contrazione del mercato, la crisi economica e il precariato (con il conseguente aumento delle prestazioni a sostegno del reddito) hanno portato a una riduzione importante degli introiti nelle casse dell’Inps. Il risultato è stato un ripensamento radicale del meccanismo del sistema pensionistico del nostro Paese che ha condotto al sistema attuale: un allungamento dell’età pensionabile, ma soprattutto un sistema “contributivo”, ovvero il lavoratore percepisce la pensione in base ai contributi effettivamente versati e calcolati sull’intero periodo lavorativo. Tenendo conto del fatto che gli stipendi aumentano nel corso della vita lavorativa, va da sé capire che inglobando nella media anche gli stipendi percepiti ad inizio carriera (i più bassi), anche l’ammontare dell’assegno pensionistico sarà inferiore rispetto a quello calcolato attraverso il modello retributivo (calcolato solo sugli ultimi anni di carriera lavorativa in cui gli stipendi sono generalmente più elevati). Facendo un calcolo grossolano, poiché occorrerebbe analizzare il singolo caso, si può certamente dire che generalmente l’assegno pensionistico sarebbe pari all’ultimo stipendio percepito decurtato di almeno un buon 30% del suo ammontare (ad esempio, chi percepisce a fine carriera 1.000 euro, si vedrebbe erogare 700 euro di pensione).

La trasformazione sociale ed economica del nostro Paese ha, di fatto, modificato le aspettative del “pensionamento” e ha fatto emergere con evidenza quanto sia essenziale pensare al “domani” attraverso l’utilizzo della previdenza complementare.
Da ciò deriva la necessità di "dotarsi" di uno strumento di accantonamento, e ciò vale in particolar modo per i giovani lavoratori di oggi, spesso precari, e alle prese con un sistema pensionistico poco “rassicurante”.

 

 

Chi può accedere alla previdenza complementare

E’ stato detto che la normativa sulla previdenza complementare (o integrativa) è disciplinata nel nostro ordinamento con il D.lgs. 252/2005.

In base al secondo comma dell’art. 1 del citato decreto legislativo “L'adesione alle forme pensionistiche complementari disciplinate dal presente decreto è libera e volontaria”. La norma in questione rimarca ulteriormente le due caratteristiche dell’adesione alla previdenza integrativa:

1.    Libertà di adesione, quindi il carattere facoltativo rispetto all’obbligatorietà del sistema pensionistico di base erogato dall’Inps

2.    Volontarietà di adesione, quindi la scelta consapevole del lavoratore di sottoscrivere una pensione integrativa

Detto ciò, in base all’art. del D.lgs. 252/2005 possono usufruire di una pensione integrativa:

a) i lavoratori dipendenti, sia privati sia pubblici;

b) i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio;

c) i soci lavoratori di cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate;

d) i soggetti fiscalmente a carico;

e) anche coloro che non svolgono attività lavorativa;

 

 

Le tipologie di fondi pensione

I fondi pensione si dividono sostanzialmente in tre tipologie:

1.    I fondi chiusi (o fondi negoziali o contrattuali): sono dei fondi pensione a cui possono accedere esclusivamente alcune tipologie di lavoratori pubblici o privati poiché sono previsti dai determinati contratti di lavoro collettivo di una specifica categoria

2.    I fondi aperti: sono dei fondi pensione a cui possono accedere i tutti, sia i lavoratori dipendenti o liberi professionisti, sia chi non è percettore di reddito

3.    I PIP (piani individuali di risparmio): sono piani personalizzati e organizzati ad hoc in modo da rispondere alle esigenze dello specifico lavoratore; si tratta per lo più di piani pensionistici gestiti attraverso contratti di assicurazione sulla vita e che prevedono una componente previdenziale.

 

 

La destinazione del TFR in un fondo pensione

Accanto a una quota che il lavoratore decide autonomamente e volontariamente di destinare a un fondo pensione (in base al citato comma 2 dell’art. 1 del D.lgs. 252/2005), è possibile accantonare nel medesimo fondo anche la quota di TFR maturando (l’alternativa è quella di lasciare il TFR presso il datore di lavoro se l’impresa ha meno di 50 dipendenti).

Se, però, il dipendente, entro i sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, non esprime alcuna volontà al riguardo vale la regola del silenzio-assenso, ovvero il datore di lavoro deve trasferire il TFR maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dal contratto collettivo o, in mancanza di questo, presso un fondo istituito ad hoc presso l’Inps (Fondinps).

La scelta di trasferire il TFR maturando in un fondo pensione, però, può essere effettuata anche in un momento successivo.

 

 

Il regime fiscale dei fondi pensione

Infine va affrontato il tema del regime fiscale che, nel caso dei fondi pensione è molto premiante poiché chi sottoscrive un fondo pensione può godere di alcuni benefici così sintetizzabili:

•    Deduzione dei versamenti in fondi pensione dalla base imponibile ai fini della dichiarazione dei redditi entro un limite massimo stabilito dalla legge, ossia 5.164,57€.

•    Il rendimento della gestione dei fondi pensione sono tassati con un’aliquota sostitutiva del 20% certamente più bassa rispetto a quella ordinaria applicata al capital gain (in genere del 26% tranne che per i titolo di Stato che è pari al 12,50%)

•    Al momento della riscossione del montante, la quota percepita e non ancora tassata durante la fase di accumulo, è soggetta a una tassazione decrescente al crescere degli anni di sottoscrizione del fondo pensione (per i lavoratori del settore privato), mentre per i dipendenti della pubblica amministrazione si applica una tassazione ordinaria sui rendimenti del fondo e una tassazione separata sul montante finale non tassato al momento della riscossione.

In definitiva, il concetto è che prima si pianifica il proprio futuro e meglio è in termini di rendimento e di benefici fiscali.

 

Il mio studio si offre disponibile a fornire maggiori informazioni al riguardo e una consulenza ad hoc in base al singolo caso.

 

Articolo del:


di Vincenzo Sorrenti

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