Pietro ha curato la sua balbuzie
La narrazione di un caso di terapia della balbuzie
Come annunciato nel precedente articolo sulla cura della balbuzie, presento, qui di seguito, un caso.
Pietro è un ragazzo di 17 anni, frequenta la IV superiore. E’ figlio unico. I risultati scolastici sono piuttosto buoni. Pratica attivamente lo sport (basket). I genitori, con un discreto livello di ansia, operano un condizionamento su di lui non palpabile, direi "strisciante". Di base, comunque, l’ambiente familiare è positivo. Il suo inserimento sociale è sufficientemente buono, pur se ai suoi occhi non soddisfacente. Viene inviato a me da una logopedista. Il lavoro inizia, dopo il Primo Colloquio che avviene, all’inizio, anche in presenza della madre. Il suo eloquio è veloce, le pause inspiratorie pressoché assenti: la rieducazione del linguaggio è un percorso di presa di coscienza, con uso di registrazioni (audio e video). Questa fase dà subito risultati: in termini di autoconoscenza e di strumentazione personale rispetto al linguaggio. La terapia della balbuzie di norma dà, sin dalle prime battute, risultati positivi perché attua un movimento verso il "nuovo". Il vero problema è stabilizzare nel tempo tali risultati fuori dalla stanza terapeutica, e farli progredire in una successione virtuosa, capace di mostrare al parlante la propria potenziale fluenza linguistica. Passiamo quindi alla parte più propriamente psicoterapica. Pur se le due discipline - linguistica/psicologia - interagiscono sempre: gli esercizi sul linguaggio avvengono su letture, esercizi di dizione e respirazioni, sì, ma anche sul linguaggio in quanto effettiva comunicazione. Quindi sul linguaggio, quale è in uso nella prassi di una seduta psicoterapica. Presento a Pietro il percorso dell’induzione e sue motivazioni (v. articolo precedente). Usiamo la poltrona nella "versione induzione". La prima induzione ha per oggetto la respirazione. Per sensibilizzarlo a un uso consapevole del proprio fiato, e non solo in funzione del linguaggio: il mio scopo è allargare il suo "panorama". Uso immagini che lo portino a osservare il flusso lento e costante delle onde sulla riva del mare. Di un mare calmo. Esclusivamente questa consegna, "giocando" tra ritmo delle onde e ritmo respiratorio. Associo la calma respiratoria alla percezione di una calma più ampia. Lo invito quindi a parlare di quella spiaggia, di quelle onde; e del suo torace e addome e respirazione. Ma solo se vuole parlare, dire, prendendosi il proprio spazio e tempo. Per scoprire il piacere di una comunicazione spontanea, non necessitata, quindi non ansiosa; unita a una sensazione di libertà fisica e interiore. Non fornisco altri "rinforzi", gli faccio solo sentire la mia presenza inserendomi nel suo discorso con isolate parole ("sì", "ti seguo"...). Ascolto i suoi silenzi e le sue comunicazioni. In questi casi, ritengo utile che il paziente parli anche durante l’induzione, se vuol farlo. Alla fine, gli spiego la necessità/capacità di interiorizzare e memorizzare quella situazione, da lui, e solo da lui, creata. Analogo è il percorso delle sedute successive. La terapia si interrompe per una vacanza, al ritorno dalla quale mi racconta della fluidità del suo linguaggio, pur se permane ancora una velocità della quale si rimprovera. Mi racconta anche di lunghe conversazioni con una ragazza, che è, finalmente, riuscito a conoscere: "era lei che se ne stava in disparte, ma questa volta mi sono fatto avanti. E, con lei, ho sempre parlato adagio. La rivedrò domani". Il tema della velocità d’eloquio e la relativa autocolpevolizzazione sono state al centro delle successive sedute. Agendo in particolare sulle conflittualità interiori, ma indirettamente, e attraverso il problema dell’ansia: prima di partire per qualche località, in più occasioni, aveva sognato i luoghi in cui sarebbe andato. Rispetto a queste manifestazioni di desiderio/ansia anticipatoria, ho stabilito induzioni che lo portavano in quei luoghi: "cammini adagio per le vie di questo paesino, osservi tutto con molta calma. Comunichi pensieri e sensazioni, che ti dài il tempo di accogliere". Abbinando l’ansia alle anticipazioni, quindi anche alla velocità d’eloquio, stabilisce un’"autoassoluzione" rispetto alla propria velocità linguistica: non è "l’autore diretto" di quella velocità, ma un "produttore di velocità", condizionato da ansia e antiche abitudini acquisite. Si tratta di riuscire a trovare modi nuovi di pensare, di pensarsi e di pensare il linguaggio. Accoglie il problema, quindi lo ridimensiona: il che ci consente di lavorare sul problema e non sull’ansia della soluzione. Determinando un rapporto più sereno, comunque costruttivo, con se stesso. Il che gli consente di capire che il vero problema non è parlare, ma dire. Questa caso fu presentato al Convegno "Ipnosi nel 2000", organizzato a Milano nel 2001 dall’AMISI (Associazione Medica Italiana Studi sull’Ipnosi). Quindi pubblicato negli "Atti del Convegno", con altro mio intervento. L’anno scorso, nel 2014, ho avuto modo di parlare con "Pietro" al telefono: oggi è un ingegnere, lavora all’estero, da dove mi parlava. Con un linguaggio molto scorrevole mi raccontava della sua ormai acquisita fluenza linguistica, del suo lavoro e della sua vita privata. Questa narrazione di Pietro racconta la terapia come ricerca nella direzione indicata in questi articoli sulla cura della balbuzie. Lungi da me l’idea di trionfalismi terapeutici. Perché lungi da tutti dev’essere, e in qualsiasi disciplina, la visione trionfalistica. Per liberare la comunicazione, non servono schemi fonetici preconfezionati da fornire indistintamente in massa, ma serve la ricerca individualizzata sul linguaggio. Il linguaggio è una funzione, quindi uno strumento al proprio servizio. Agli occhi del balbuziente, il linguaggio si è trasformato in un fine, quasi un miraggio. Una intenzionalità alla comunicazione lo ridimensionerà, sorretti dalla consapevolezza di una adeguata strumentazione fonico/linguistica.
Pietro è un ragazzo di 17 anni, frequenta la IV superiore. E’ figlio unico. I risultati scolastici sono piuttosto buoni. Pratica attivamente lo sport (basket). I genitori, con un discreto livello di ansia, operano un condizionamento su di lui non palpabile, direi "strisciante". Di base, comunque, l’ambiente familiare è positivo. Il suo inserimento sociale è sufficientemente buono, pur se ai suoi occhi non soddisfacente. Viene inviato a me da una logopedista. Il lavoro inizia, dopo il Primo Colloquio che avviene, all’inizio, anche in presenza della madre. Il suo eloquio è veloce, le pause inspiratorie pressoché assenti: la rieducazione del linguaggio è un percorso di presa di coscienza, con uso di registrazioni (audio e video). Questa fase dà subito risultati: in termini di autoconoscenza e di strumentazione personale rispetto al linguaggio. La terapia della balbuzie di norma dà, sin dalle prime battute, risultati positivi perché attua un movimento verso il "nuovo". Il vero problema è stabilizzare nel tempo tali risultati fuori dalla stanza terapeutica, e farli progredire in una successione virtuosa, capace di mostrare al parlante la propria potenziale fluenza linguistica. Passiamo quindi alla parte più propriamente psicoterapica. Pur se le due discipline - linguistica/psicologia - interagiscono sempre: gli esercizi sul linguaggio avvengono su letture, esercizi di dizione e respirazioni, sì, ma anche sul linguaggio in quanto effettiva comunicazione. Quindi sul linguaggio, quale è in uso nella prassi di una seduta psicoterapica. Presento a Pietro il percorso dell’induzione e sue motivazioni (v. articolo precedente). Usiamo la poltrona nella "versione induzione". La prima induzione ha per oggetto la respirazione. Per sensibilizzarlo a un uso consapevole del proprio fiato, e non solo in funzione del linguaggio: il mio scopo è allargare il suo "panorama". Uso immagini che lo portino a osservare il flusso lento e costante delle onde sulla riva del mare. Di un mare calmo. Esclusivamente questa consegna, "giocando" tra ritmo delle onde e ritmo respiratorio. Associo la calma respiratoria alla percezione di una calma più ampia. Lo invito quindi a parlare di quella spiaggia, di quelle onde; e del suo torace e addome e respirazione. Ma solo se vuole parlare, dire, prendendosi il proprio spazio e tempo. Per scoprire il piacere di una comunicazione spontanea, non necessitata, quindi non ansiosa; unita a una sensazione di libertà fisica e interiore. Non fornisco altri "rinforzi", gli faccio solo sentire la mia presenza inserendomi nel suo discorso con isolate parole ("sì", "ti seguo"...). Ascolto i suoi silenzi e le sue comunicazioni. In questi casi, ritengo utile che il paziente parli anche durante l’induzione, se vuol farlo. Alla fine, gli spiego la necessità/capacità di interiorizzare e memorizzare quella situazione, da lui, e solo da lui, creata. Analogo è il percorso delle sedute successive. La terapia si interrompe per una vacanza, al ritorno dalla quale mi racconta della fluidità del suo linguaggio, pur se permane ancora una velocità della quale si rimprovera. Mi racconta anche di lunghe conversazioni con una ragazza, che è, finalmente, riuscito a conoscere: "era lei che se ne stava in disparte, ma questa volta mi sono fatto avanti. E, con lei, ho sempre parlato adagio. La rivedrò domani". Il tema della velocità d’eloquio e la relativa autocolpevolizzazione sono state al centro delle successive sedute. Agendo in particolare sulle conflittualità interiori, ma indirettamente, e attraverso il problema dell’ansia: prima di partire per qualche località, in più occasioni, aveva sognato i luoghi in cui sarebbe andato. Rispetto a queste manifestazioni di desiderio/ansia anticipatoria, ho stabilito induzioni che lo portavano in quei luoghi: "cammini adagio per le vie di questo paesino, osservi tutto con molta calma. Comunichi pensieri e sensazioni, che ti dài il tempo di accogliere". Abbinando l’ansia alle anticipazioni, quindi anche alla velocità d’eloquio, stabilisce un’"autoassoluzione" rispetto alla propria velocità linguistica: non è "l’autore diretto" di quella velocità, ma un "produttore di velocità", condizionato da ansia e antiche abitudini acquisite. Si tratta di riuscire a trovare modi nuovi di pensare, di pensarsi e di pensare il linguaggio. Accoglie il problema, quindi lo ridimensiona: il che ci consente di lavorare sul problema e non sull’ansia della soluzione. Determinando un rapporto più sereno, comunque costruttivo, con se stesso. Il che gli consente di capire che il vero problema non è parlare, ma dire. Questa caso fu presentato al Convegno "Ipnosi nel 2000", organizzato a Milano nel 2001 dall’AMISI (Associazione Medica Italiana Studi sull’Ipnosi). Quindi pubblicato negli "Atti del Convegno", con altro mio intervento. L’anno scorso, nel 2014, ho avuto modo di parlare con "Pietro" al telefono: oggi è un ingegnere, lavora all’estero, da dove mi parlava. Con un linguaggio molto scorrevole mi raccontava della sua ormai acquisita fluenza linguistica, del suo lavoro e della sua vita privata. Questa narrazione di Pietro racconta la terapia come ricerca nella direzione indicata in questi articoli sulla cura della balbuzie. Lungi da me l’idea di trionfalismi terapeutici. Perché lungi da tutti dev’essere, e in qualsiasi disciplina, la visione trionfalistica. Per liberare la comunicazione, non servono schemi fonetici preconfezionati da fornire indistintamente in massa, ma serve la ricerca individualizzata sul linguaggio. Il linguaggio è una funzione, quindi uno strumento al proprio servizio. Agli occhi del balbuziente, il linguaggio si è trasformato in un fine, quasi un miraggio. Una intenzionalità alla comunicazione lo ridimensionerà, sorretti dalla consapevolezza di una adeguata strumentazione fonico/linguistica.
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