Psicofarmaci: prendere o lasciare?


Gli psicofarmaci in "terapia integrata" possono diminuire la sofferenza, aiutando la psicoterapia a creare emozioni e comportamenti più funzionali
Psicofarmaci: prendere o lasciare?
Pochi argomenti in medicina sollevano dispute ed evocano "fantasmi" come gli psicofarmaci. Prenderli o non prenderli? Anche in questo, internet rappresenta un cambiamento epocale. Tra il "di tutto, di più" dei forum, le discussioni pro e contro gli psicofarmaci sono particolarmente animate, corredate da molte storie e aneddoti basati su lunghe esperienze personali. Gli scambi di opinioni su Zoloft, Paroxetina o Xanax si sprecano. Purtroppo però, come accade nelle dispute che scaldano gli animi, il risultato è talvolta una radicalizzazione di posizioni inconciliabili, lontane dalla realtà scientifica e che creano veri e propri "fantasmi". Ed è un’occasione perduta dai medici per migliorare le cure, e dai pazienti per stare meglio. Infatti, non sempre i medici ascoltano a sufficienza i loro pazienti. Il medico, volto a rilevare sintomi e a formulare diagnosi e terapie, non sempre valuta con attenzione l’opinione del paziente, preferendo soprattutto fare riferimento, come da manuale, a linee guida e protocolli clinici. Può crearsi così un fossato, tra la "scienza" del medico e il "vissuto" del paziente. Ma torniamo agli psicofarmaci... prenderli o non prenderli? Parliamo dei "fantasmi" di cui s’è detto: "Gli psicofarmaci intossicano il cervello", "non sono più io a governare la mia vita, ma i farmaci", "se uso dei farmaci rinuncio a farcela da solo e mi sento di valere meno", "i farmaci non risolvono i problemi, per i quali ci vuole dell’altro: meditazione, tecniche di rilassamento, terapie mente/corpo, magari anche una psicoterapia..." Dall’altra parte c’è chi dice che "gli psicofarmaci gli hanno salvato", che "senza di essi non ne sarebbe mai venuto fuori". Dove sta la verità? Come sempre sta un po’ qua e un po’ là. Il disagio psicologico, e disturbi come ansia e depressione, possono derivare dalle difficoltà della vita di ogni giorno, ma poi nel cervello essi si traducono in modificazioni elettriche e chimiche. Può anche accadere l’inverso, cioè che qualche malfunzionamento del cervello produca sintomi e disagio psichico. Mi sia concessa una piccola similitudine, che ormai, nell’era digitale, può risultare intuitiva. E’ come se problemi del "software" (le difficoltà della vita quotidiana) si traducessero in malfunzionamenti dell’ "hardware" (il sistema elettrico e soprattutto chimico del cervello), o viceversa, che una "malattia" dell’hardware (qualche malfunzionamento elettrico e chimico in talune aree del cervello) potesse produrre sintomi psichici e disagio. Il collegamento tra funzionamento della mente e fisiologia del cervello non è ancora del tutto chiarito, anche se si stanno facendo grandi passi in questo campo. D’altra parte, la psicoterapia, nelle sue diverse forme, ma soprattutto in quella più recente, detta "cognitivo-comportamentale", cerca di lavorare sul "software", cerca cioè di individuare idee, emozioni, comportamenti "disfunzionali" (analogamente alla ricerca dei "bachi nel software") e di sostituirli con altri più "funzionali", cioè più adeguati a vivere serenamente. Ma questo processo è lungo, faticoso, a volte incompleto o comunque insufficiente a diminuire la sofferenza. E i farmaci allora? Non modificano il "software", ma possono migliorare, attraverso una modificazione della chimica del cervello (l’"hardware"), i sintomi e la sofferenza. Talvolta non è indispensabile prendere anche dei farmaci, mentre - credo - un "lavoro sul software" attraverso la psicoterapia, o altre terapie non farmacologiche, sarebbe sempre auspicabile. Però ci sono dei casi in cui la sofferenza è troppo acuta e invalidante e senza farmaci non si riesce a curarla. In tali casi è indicata una "terapia integrata" psicologica e farmacologica insieme. Inoltre penso che una terapia attuata esclusivamente con psicofarmaci sia spesso insufficiente. Come si può migliorare l’efficienza della macchina senza insieme aiutare il guidatore a scegliere meglio dove andare? Fuor di metafora, come si può interagire con la chimica del cervello senza parlare con la persona? Senza interagire con le sue emozioni, le sue relazioni, la sua storia? Non si può chiedere al farmaco quello che non può dare, ma si può, e in taluni casi si deve, usarlo per permettere alla persona di elaborare meglio le proprie emozioni e il proprio modo di affrontare la vita. Usare uno strumento efficace, come uno psicofarmaco, non sminuisce le capacità della persona, può invece aiutarla ad esprimerle meglio. Molti psicofarmaci, hanno bassi livelli di tossicità e non danno dipendenza. Con altri, se usati con attenzione e in modo oculato, queste si possono controllare. I danni maggiori di questi farmaci si riscontrano nelle terapie "fai da te" e in quelle "non integrate". Sta al professionista proporre la terapia migliore, sia in senso psicoterapeutico che farmacologico. Sta invece al paziente scegliere il professionista che garantisce una presa in carico "integrata" di tutta la persona, dei suoi vissuti, dei suoi comportamenti "disfunzionali" e delle sue emozioni. Capace di "ascoltare la narrazione" del paziente, di "concordare" con lui la terapia, e monitorarla con costanza, ma anche capace di lenire la sua sofferenza con psicofarmaci, quando essa è difficilmente sopportabile.

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di Dr. Andrea Flego

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