Quando la ditta è in crisi…workers buy out
Se l'azienda è decotta o già in fallimento c'è ancora una possibilità per salvare i posti di lavoro, l'acquisto da parte di una coop dei dipendenti

Niente paura, il WBO non è un virus; semmai potrebbe essere un antivirus. E’ l’acronimo di Workers buy out ovvero - usando la nostra lingua - acquisizione dell’azienda da parte dei dipendenti. In molti casi questa pratica per i dipendenti potrebbe essere l’ultima spiaggia.
Si tratta di un’operazione di tipo societario mediante la quale i dipendenti di un’azienda in crisi o, peggio, ormai nella condizione di ex-dipendenti, si uniscono in cooperativa per rilevare l’azienda presso la quale lavorano, o un ramo di essa.
Vediamo quali sono le caratteristiche principali che possono condurre a una simile scelta ad un risultato positivo.
Si tratta certamente di un’operazione non facile dovendo verificare innanzitutto le motivazioni per le quali l’azienda è entrata in crisi e, non di meno, valutare attentamente il mercato in cui opera; talvolta esso stesso in crisi. Fondamentale è la volontà, se non di tutti, almeno di parecchi lavoratori a indossare, contemporaneamente a quello di lavoratore dipendente, l’abito dell’imprenditore e "mettersi alla prova". Decisiva è la presenza di un professionista disponibile a prendere il timone di una barca in grave difficoltà - convogliando su di sé una serie notevole di problemi e di rapporti - per gestire tutte le fasi dell’operazione e portarla fuori dalle secche. Serviranno valutazioni economico-finanziarie e patrimoniali, la predisposizione dei passaggi societari, la gestione dei rapporti con clienti, fornitori, sindacati, istituti e molto altro.
Si è detto che necessita la volontà di parecchi lavoratori. Certo che sì. La volontà è fondamentale ma non lo sono di meno la motivazione, la determinazione, la disponibilità di un piccolo capitale, e la presenza tra i soci di capacità manageriali.
Vediamo come potrebbe funzionare l’operazione.
Innanzitutto alcuni soci, i fondatori, devono attivarsi per costituire con atto notarile, insieme al più alto numero possibile di colleghi, la cooperativa, con lo scopo di acquisire un ramo o l’intera azienda in condizioni fallimentari o, anche, già nelle mani del curatore fallimentare.
Il capitale sociale può essere reperito sia attingendo al Tfr dei soci che - grazie alla L. 223/91 - all’anticipazione da parte dell’Inps dell’indennità di mobilità. Inoltre, essi possono reperire denaro dai fondi mutualistici (istituiti con L. 59/92 per la promozione e sviluppo della cooperazione) che parteciperebbero in funzione di soci finanziatori. Altre norme, come la L. 49/85, favoriscono il finanziamento di progetti di cooperazione attraverso un fondo di rotazione che consente di erogare finanziamenti di importo sino a 3 volte il capitale sociale conferito dai lavoratori. Da ultimo il reperimento di capitale di rischio proveniente da banche sulla base del capitale già reso disponibile dai soci e proveniente da Tfr e indennità di disoccupazione.
A questo punto la nuova compagine a questo punto è in condizioni di rivolgersi al liquidatore o al curatore fallimentare per trattare e procedere all’acquisto. Fase fondamentale e delicata quest’ultima giacché solitamente vi vengono coinvolti in maniera importante i sindacati, i precedenti proprietari, i creditori ed il liquidatore o, nel caso di avvenuta dichiarazione di fallimento, il curatore fallimentare.
Ma perché una cooperativa e non una società di persone o di capitali?
La risposta è alquanto semplice. Perché questi lavoratori, nel momento in cui rischiano di passare nella categoria dei disoccupati, hanno come scopo primario non il lucro ma quello di procurarsi un nuovo lavoro e, nella migliore delle ipotesi, a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Non di meno, con la costituzione di una cooperativa rispetto ad una società di capitali, hanno i vantaggi fiscali derivanti da una riduzione di imponibile e, quindi, di imposta. In tal modo si riservano una condizione di maggiore competitività sul mercato tale da poter battere la concorrenza. Da ultimo, non meno importante, nella sperata ipotesi di lavorare e chiudere i bilanci in positivo, la possibilità di distribuire ristorni ai soci lavoratori con il vantaggio che tali ristorni sono esenti da contributi previdenziali.
Si tratta di un’operazione di tipo societario mediante la quale i dipendenti di un’azienda in crisi o, peggio, ormai nella condizione di ex-dipendenti, si uniscono in cooperativa per rilevare l’azienda presso la quale lavorano, o un ramo di essa.
Vediamo quali sono le caratteristiche principali che possono condurre a una simile scelta ad un risultato positivo.
Si tratta certamente di un’operazione non facile dovendo verificare innanzitutto le motivazioni per le quali l’azienda è entrata in crisi e, non di meno, valutare attentamente il mercato in cui opera; talvolta esso stesso in crisi. Fondamentale è la volontà, se non di tutti, almeno di parecchi lavoratori a indossare, contemporaneamente a quello di lavoratore dipendente, l’abito dell’imprenditore e "mettersi alla prova". Decisiva è la presenza di un professionista disponibile a prendere il timone di una barca in grave difficoltà - convogliando su di sé una serie notevole di problemi e di rapporti - per gestire tutte le fasi dell’operazione e portarla fuori dalle secche. Serviranno valutazioni economico-finanziarie e patrimoniali, la predisposizione dei passaggi societari, la gestione dei rapporti con clienti, fornitori, sindacati, istituti e molto altro.
Si è detto che necessita la volontà di parecchi lavoratori. Certo che sì. La volontà è fondamentale ma non lo sono di meno la motivazione, la determinazione, la disponibilità di un piccolo capitale, e la presenza tra i soci di capacità manageriali.
Vediamo come potrebbe funzionare l’operazione.
Innanzitutto alcuni soci, i fondatori, devono attivarsi per costituire con atto notarile, insieme al più alto numero possibile di colleghi, la cooperativa, con lo scopo di acquisire un ramo o l’intera azienda in condizioni fallimentari o, anche, già nelle mani del curatore fallimentare.
Il capitale sociale può essere reperito sia attingendo al Tfr dei soci che - grazie alla L. 223/91 - all’anticipazione da parte dell’Inps dell’indennità di mobilità. Inoltre, essi possono reperire denaro dai fondi mutualistici (istituiti con L. 59/92 per la promozione e sviluppo della cooperazione) che parteciperebbero in funzione di soci finanziatori. Altre norme, come la L. 49/85, favoriscono il finanziamento di progetti di cooperazione attraverso un fondo di rotazione che consente di erogare finanziamenti di importo sino a 3 volte il capitale sociale conferito dai lavoratori. Da ultimo il reperimento di capitale di rischio proveniente da banche sulla base del capitale già reso disponibile dai soci e proveniente da Tfr e indennità di disoccupazione.
A questo punto la nuova compagine a questo punto è in condizioni di rivolgersi al liquidatore o al curatore fallimentare per trattare e procedere all’acquisto. Fase fondamentale e delicata quest’ultima giacché solitamente vi vengono coinvolti in maniera importante i sindacati, i precedenti proprietari, i creditori ed il liquidatore o, nel caso di avvenuta dichiarazione di fallimento, il curatore fallimentare.
Ma perché una cooperativa e non una società di persone o di capitali?
La risposta è alquanto semplice. Perché questi lavoratori, nel momento in cui rischiano di passare nella categoria dei disoccupati, hanno come scopo primario non il lucro ma quello di procurarsi un nuovo lavoro e, nella migliore delle ipotesi, a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Non di meno, con la costituzione di una cooperativa rispetto ad una società di capitali, hanno i vantaggi fiscali derivanti da una riduzione di imponibile e, quindi, di imposta. In tal modo si riservano una condizione di maggiore competitività sul mercato tale da poter battere la concorrenza. Da ultimo, non meno importante, nella sperata ipotesi di lavorare e chiudere i bilanci in positivo, la possibilità di distribuire ristorni ai soci lavoratori con il vantaggio che tali ristorni sono esenti da contributi previdenziali.
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