Responsabilità del medico: condotta colposa innanzi a sintomi aspecifici

Innanzi all’ennesimo episodio di malasanità, gli Ermellini si sono espressi nuovamente in materia di responsabilità colposa del medico, rapportata alla sua condotta professionale tenuta dinanzi al caso di un uomo che, a seguito di uno svenimento, su indicazione del medico curante, si era rivolto ai sanitari del pronto soccorso, dove gli era stata prescritta esclusivamente una visita cardiologica ed il controllo della pressione sanguigna.
Alcuni giorni dopo, sempre su indicazione del medico curante, l’uomo, a causa d'una preesistente cefalea, era tornato nello stesso ospedale, dove il medico di turno, effettuata nuovamente la visita del paziente, non prescriveva particolari accertamenti diagnostici, limitandosi a prescrivere l'assunzione di un medicinale.
Tuttavia, dopo pochi giorni, l’uomo veniva colto da una emiparesi sinistra e solo in tale occasione, trasportato presso il medesimo nosocomio, veniva sottoposto ad un esame TAC del cranio, che rivelava la presenza di un ematoma intracranico, dovuto alla rottura d'un aneurisma.
Sfortunatamente, il paziente, trasferito a Sassari e sottoposto ad intervento chirurgico di evacuazione dell'ematoma e di chiusura della lesione che l'aveva provocato, decedeva dopo pochi giorni a causa delle conseguenze del pregresso ematoma intracranico.
Ne nasceva una causa per responsabilità medica promossa dalla moglie e dai figli dell’uomo (nella quale intervenivano anche i genitori ed i suoi fratelli), che lamentavano la condotta negligente dei sanitari dell’ospedale che non avevano effettuato tempestivamente quegli esami che avrebbero potuto svelare subito la presenza dell'aneurisma, consentendo, in tal modo, le cure più opportune ed immediate per salvare la vita del paziente.
La domanda risarcitoria veniva rigettata sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte di appello, sul presupposto che non vi era stata colpa nella condotta dei sanitari dell'ospedale, i quali avevano visitato il paziente con zelo professionale e che non avrebbero mai potuto prospettare l'esistenza d'una patologia (l'aneurisma) della quale non esistevano sintomi specifici. I giudici, inoltre, non ravvisavano nemmeno la sussistenza del nesso causale tra la condotta dei sanitari e la morte del paziente.
La controversia, quindi, è stata posta all’attenzione della Suprema Corte, la quale ha deciso con sentenza n. 30999 del 30 novembre 2018.
La Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso dei parenti dell’uomo deceduto, con il quale si lamentava l’omessa valutazione, da parte della Corte di Appello, di un fatto decisivo della controversia, costituito proprio dalla circostanza secondo cui se il paziente fosse stato tempestivamente operato, non si sarebbe formato l'ematoma che, provocando una ipertensione intracranica, aveva causato in seguito il coma e la morte del paziente.
Orbene, gli Ermellini, in accoglimento di detto motivo, hanno censurato la decisione di secondo grado, laddove la Corte di appello aveva escluso il nesso causale tra l'intempestiva diagnosi di aneurisma e la morte del paziente, sul presupposto che le possibilità di successo dell'intervento di clippaggio dell'aneurisma sarebbero state identiche, anche se l'intervento fosse stato compiuto venti giorni prima.
La Cassazione, invero ha dedotto che in tanto può affermarsi che le possibilità di successo del medesimo intervento, eseguito sul medesimo paziente, non mutano sol perché eseguito due settimane prima o due settimane dopo, in quanto si assumano stazionarie le condizioni del paziente (vale a dire ceteris paribus). Nel caso di specie, tuttavia, mancava il presupposto del ceteris paribus: a giugno l'aneurisma non era rotto, e non c'era l'ematoma (od almeno la Corte d'appello non ha accertato se ci fosse); a luglio invece l'aneurisma s'era rotto, e si era formato l'ematoma.
Ha concluso la Suprema Corte stabilendo che: la logica deduttiva induce dunque a concludere che se l'intervento fosse stato eseguito immediatamente, non vi sarebbe stata l'emorragia, la quale fu la causa del danno cerebrale e della morte. La sentenza, quindi, su tale punto, è stata cassata con rinvio.
Ma non è tutto. La Suprema Corte ha esaminato altri due motivi di censura della sentenza di secondo grado, valutati congiuntamente, secondo cui: la Corte d'appello aveva escluso la colpa dei sanitari convenuti, sul presupposto che il paziente, al momento in cui fu da essi visitato, presentava sintomi aspecifici, e che non deponevano chiaramente ed univocamente per la presenza d'un aneurisma cerebrale; anche ad ammettere che quei sintomi fossero stati davvero aspecifici, proprio la loro ambiguità avrebbe dovuto indurre i sanitari a più approfonditi accertamenti.
Anche tali censure hanno trovato accoglimento.
I Giudici di Piazza Cavour, infatti, hanno evidenziato che la colpa civile va intesa nella deviazione da una regola di condotta. La "regola di condotta" dal cui allontanamento può scaturire la colpa può consistere non soltanto in una norma giuridica, ma anche in una regola di comune prudenza o nelle cc.dd. leggi dell'arte. La norma di riferimento in questi casi è costituita dall’art. 1176 c.c., la quale impone al debitore di adempiere la propria obbligazione con diligenza, per cui “è in colpa chi non è stato diligente, mentre chi tiene una condotta diligente non può essere ritenuto in colpa”.
In particolare, sostiene la Corte, nell’ipotesi di inadempimento di obbligazioni professionali, ovvero di danni causati nell'esercizio d'una attività "professionale" in senso ampio, il secondo comma dell'art. 1176 c.c. prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa. Il "professionista", infatti, è in colpa non solo quando tenga una condotta difforme da quella che, idealmente, avrebbe tenuto nelle medesime circostanze il bonus paterfamilias, ma anche quando abbia tenuto una condotta difforme da quella che avrebbe tenuto, al suo posto, un ideale professionista "medio" (il c.d. homo eiusdem generis et condicionis).
Ed è la stessa Corte ad affermare che: l'ideale "professionista medio" di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., nella giurisprudenza di questa Corte, non è un professionista "mediocre", ma è un professionista "bravo": ovvero serio, preparato, zelante, efficiente (SIC!).
Fissato, quindi, il concetto di “medico diligente” ai sensi del citato articolo, gli Ermellini hanno stabilito che, di fronte a sintomi aspecifici, potenzialmente ascrivibili a malattie diverse, o comunque di difficile interpretazione, il medico non può acquietarsi in una scettica “epoché”, sospendendo il giudizio ed attendendo il corso degli eventi. Deve, al contrario, o formulare una serie di alternative ipotesi diagnostiche, verificandone poi una per una la correttezza; oppure almeno segnalare al paziente, nelle dovute forme richieste dall'equilibrio psicologico di quest'ultimo, tutti i possibili significati della sintomatologia rilevata.
Tale, quindi, è il comportamento di un medico “diligente” ovvero serio, preparato, zelante, efficiente. Al contrario, dicono i Giudici, non mantiene una condotta conforme al precetto di cui all'art. 1176, comma secondo, c.c., il medico che, di fronte al persistere di sintomi od indici diagnostici dei quali non è agevole intuire l'eziogenesi, non solo non compia ogni sforzo per risalire, anche procedendo per tentativi, alla causa reale del sintomo, ma per di più taccia al paziente i significati di esso.
Nel caso specifico, come accertato dalla Corte di Appello, il paziente "non presentava segni o sintomi che indicassero chiaramente un evento emorragico cerebrale". Tuttavia, tale circostanza non avrebbe dovuto escludere la colpa dei medici, ma al contrario, proprio l'aver accertato in facto che i sintomi non erano chiari e non deponevano chiaramente per l'esistenza di un aneurisma sanguinante, avrebbe dovuto condurre alla conclusione in iure della negligenza dei sanitari stessi, per aver scartato a priori anche questa ipotesi, senza disporre preliminarmente alcun accertamento specialistico.
In definitiva, la Suprema Corte ha cosi statuito: (a) la sentenza impugnata è errata in diritto, nella parte in cui ha accertato in fatto che i sintomi fossero aspecifici, e ritenuto in diritto che non vi fosse colpa dei sanitari nel non avere sottoposto il paziente a più approfonditi esami diagnostici; (b) la sentenza impugnata è nulla per illogicità insanabile della motivazione, nella parte in cui ha recepito acriticamente le illogiche (oltre che erronee) motivazioni del consulente tecnico d'ufficio.
È stato, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: “Tiene una condotta colposa il medico che, dinanzi a sintomi aspecifici, non prenda scrupolosamente in considerazione tutti i loro possibili significati, ma senza alcun approfondimento, si limiti a fare propria una sola tre le molteplici e non implausibili diagnosi”.
Su tali premesse, dunque, il medico può dirsi “diligente” e può andare esente da responsabilità “grave” solo quando dimostra la celerità del suo operato e la tempestività dell’intervento, soprattutto di fronte a sintomi aspecifici, potenzialmente imputabili a malattie di diversa natura o comunque di non facile individuazione. In tali casi, infatti, il medico “diligente” ha l’onere di formulare, con la maggiore correttezza possibile, una serie ipotetica di diagnosi alternative, informando il paziente in ordine a tutte le possibili conseguenze che ne potrebbero derivare.
Avv. Giulio Costanzo
Articolo del: