Responsabilità dell’ente per reati colposi

In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del D.Lgs 231 del 2001, relativi all'interesse o al vantaggio, devono essere riferiti alla condotta e non all'evento.
Il citato articolo 5 del D.Lgs 231/2001 (Responsabilità dell’ente) recita:
1. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi.
Significativa è stata la sentenza del noto caso Thyssenkrupp che ha condotto alla celebre sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 38343/2014 e i cui principi sono stati riconferma ti con la più recente sentenza della Corten. 16713/2018 in base alla quale “l'interesse e/o vantaggio della società nei reati colposi è da ricondurre al risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento alla normativa antinfortunistica e al risparmio di tempo nello svolgimento dell'attività lavorativa, entrambi volti alla massimizzazione del profitto ad ogni costo, anche a discapito della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori”.
La nostra Costituzione, all’art. 27, comma 1, dispone che “La responsabilità penale è personale” il che significa che risponde di un illecito penale solo ed esclusivamente la persona fisica che lo ha commesso.
Tuttavia, ci sono stati casi in cui i reati penali siano stati commessi da persone fisiche appartenenti ad enti o, comunque, a persone giuridiche e ci si è domandato se la responsabilità non dovesse ricadere anche sugli enti e non solo sulle persone fisiche, in apparente contrasto con il corollario “societas delinquere non potest”.
Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in attuazione della legge delega 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (enti).
Prima dell’introduzione di tale disciplina legislativa, gli enti collettivi non erano soggetti a responsabilità di tipo penale-amministrativo e solo le persone fisiche potevano essere perseguite per l’eventuale commissione di reati nell’interesse della compagine societaria.
L’assetto normativo è stato,quindi, profondamente innovato dal decreto legislativo 231/2001. Il decreto ha adeguato l’ordinamento italiano ad una serie di Convenzioni internazionali.
La normativa in esame si applica agli enti dotati di personalità giuridica, alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica (es. le società di capitali, le società di persone, le associazioni, le fondazioni, le società cooperative, ecc...) dotate di autonomia organizzativa.
Sono esclusi lo Stato, le Regioni, le Province ed i Comuni, e, in generale, gli altri enti pubblici.
Con il Dlgs. 231/2001, il legislatore ha stabilito che l’ente sia ritenuto responsabile per i reati commessi da persone afferenti alla struttura organizzativa, soltanto se perpetrati nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo.
L’interesse e il vantaggio sono, dunque, i requisiti necessari perché possa scattare, accanto alla responsabilità penale delle persone fisiche, anche la responsabilità amministrativa della persona giuridica.
L’interesse viene valutato ex ante prima della commissione del fatto costituente reato men tre il vantaggio ex post come utilità raggiunta dall’ente in conseguenza del commesso reato.
Il vantaggio esclusivo dell’agente (o di un terzo rispetto all’ente) non determina alcuna responsabilità in capo all’ente, trattandosi in una situazione di manifesta estraneità della persona giuridica rispetto al fatto di reato.
Il requisito soggettivo necessario è la colpevolezza dell’ente per il reato realizzato.
Esso si identifica con l’individuazione di una colpa dell’organizzazione, intesa come violazione di adeguate regole di diligenza autoimposte dall’ente medesimo e volte a prevenire lo specifico rischio da reato.
I soggetti individuati dalla normativa, ex art. 5 del D.lgs. 231/2001, sono:
a) “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo degli stessi” (cosiddetti soggetti apicali);
b) “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)” (cosiddetti sottoposti).
Ciò precisato, quando si compiono reati dolosi, l’interesse e/o il vantaggio sono di semplice individuazione, mentre nel caso dei reati colposi, la questione è da approfondire.
Per determinare un vantaggio all’ente, i reati colposi devono essere valutati in riferimento alla condotta e non all'evento.
Riprendendo la sentenza della Cassazione penale, sez. IV, n. 16713 del 13/09/2017, la responsabilità dell’ente è dettata dalla sua inadeguatezza organizzativa e dalla violazione delle norme per la tutela e la sicurezza sul lavoro.
L’interesse e il vantaggio, nei reati colposi, sono rappresentati dall’abbattimento dei costi aziendali dovuti ai mancati controlli e dall’omessa predisposizione delle misure di sicurezza.
Ma tale risparmio deve essere accertato in concreto: solo così l’evento lesivo, conseguenza della violazione di norme poste a tutela della sicurezza dei lavoratori, potrebbe aver riverberato un “effetto positivo” per l’ente.
E dunque, il vantaggio concreto deve essere riferito alla condotta (non aver tutelato i lavoratori) e non all’evento lesivo (la lesione o la morte dei dipendenti).
Ciò vale anche con riferimento ai gruppi di imprese (Cassazione penale, sez. III, n. 28725 del 11/01/2018).
Lo Studio, competente in materia, si rende disponibile per rendere consulenza in caso di necessità.
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