Responsabilità medica da nascita indesiderata
In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza - ricorrendone le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale.
Quest'onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova quali il ricorso al consulto medico per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico -fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva.
Grava sul medico la prova contraria, ossia che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.
Nel caso in esame, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione, con Sentenza n. 19151 del 19 Luglio 2018, ha riconosciuto il diritto al risarcimento nei confronti di una donna che aveva chiesto più e più volte di effettuare test clinici sul nascituro, risultato poi affetto di sindrome di Down, ma il suo ginecologo si era opposto, sconsigliando ogni pratica invasiva sul feto.
Il Tribunale di Camerino, con Sentenza del 23 febbraio 2005, giudicava il medico curante e la struttura sanitaria, in cui esercitava la professione di ginecologo, solidalmente responsabili per il danno morale, biologico e patrimoniale causato dalla nascita, non desiderata, di una bimba affetta da sindrome di Down, dopo che il medico si era rifiutato di svolgere esami e test prenatali sulla gestante a causa del cerchiaggio che le era stato praticato.
La Corte d'Appello di Ancona, con Sentenza del 14 Gennaio 2016, confermava, in punto responsabilità, la Sentenza di primo grado sull'assunto che le insistenti richieste della madre, rivolte al medico curante, di effettuare test clinici sul nascituro, rimaste del tutto inascoltate, fossero sufficientemente sintomatiche dell'intento di abortire nel caso in cui fosse stata riscontrata una grave anomalia nel feto, sussistendo all'epoca entrambe le condizioni legittimanti l'interruzione di gravidanza.
In punto quantificazione del danno, la Corte d’Appello accertava in misura minore il danno biologico e patrimoniale conseguente alla omessa effettuazione dei test diagnostici richiesti durante la gravidanza al proprio medico curante e negava la sussistenza del danno morale riconosciuto dal Tribunale come ulteriore voce di danno alla persona, intendendolo assorbito nel danno biologico, di tipo psichico e permanente, riconosciuto nella misura del 20% alla madre.
Assegnava quindi alla madre della bimba nata con sindrome di Down non diagnosticata 1/3 del danno biologico accertato nella misura del 20%, con punto d'inabilità permanente valutato secondo le tabelle milanesi e aumentato fino al massimo.
Per quanto riguarda il danno patrimoniale, la Corte seguiva la stessa logica per la liquidazione del danno, riconoscendone la quota di 1/3.
Riteneva, inoltre, non dovuto il danno morale in considerazione del riconoscimento del danno biologico.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza in esame, rileva, anzitutto, come la volontà abortiva sia desumibile dalle insistenti richieste della gestante, all'epoca trentaseienne, di effettuare una diagnosi prenatale, richieste rifiutate dal medico curante a causa del c.d. cerchiaggio praticato come terapia antiabortiva e dalle statistiche sul ricorso a interruzione in caso di feti malformati che mostrano un'alta percentuale di richieste di interruzione della gravidanza in caso di preventiva conoscenza di malformazioni di tal tipo.
Sul punto, viene richiamato il principio reso dalla Cassazione a Sezioni Unite, in base al quale, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, “il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza - ricorrendone le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale”.
Con riferimento alla quantificazione del danno, la Corte di Cassazione ritiene essere stati correttamente applicati i principi da tempo espressi sul tema, principi cristallizzati nella sentenza a SSUU n.26972/2008:
“In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile - alla luce dell'insegnamento della Corte Costituzionale (Sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (Artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 04 Agosto 2017 n. 124) - è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti. Conseguentemente, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del "danno biologico" e del "danno dinamico-relazionale", atteso che con quest'ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale). Non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del "danno biologico" e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l'esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione. Nel caso specifico, pertanto, vale la considerazione che la "struttura a cerchi concentrici del danno psichico", diagnosticato in termini di danno biologico conseguente alla lesione subita, fa ritenere la menomazione concretatasi in una patologia bio-psichica permanente e specificamente diagnosticata come la forma più intensa di alterazione del normale equilibrio biologico e mentale, comprendendo al suo interno le forme più blande del danno esistenziale”.
In merito alla quantificazione pari a un terzo del danno biologico permanente, derivante da lesione nella sfera psichica, operata dalla Corte di merito tenendo conto di diverse concause presumibilmente non collegate all'evento lesivo direttamente imputabile al medico, ma alla particolare e fragile struttura psichica della vittima della lesione, la Corte di Cassazione osserva
che il danno psichico è per sua natura soggettivo e può acquisire una diversa dimensione a seconda del soggetto su cui incide.
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità civile, in base ai principi tratti dagli Artt. 40 e 41 Cod. Pen., qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile all'uomo siano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale.
Qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo un criterio di normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Ne consegue che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un eventuale contributo "con-causale" di un fattore naturale (quale che esso sia), non è ammesso, sul piano giuridico, affidarsi a un ragionamento probatorio semplificato, tale da condurre ipso facto ad un frazionamento delle responsabilità in via equitativa, con relativo ridimensionamento del quantum risarcitorio.
In tal modo "ai fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest'ultimo si prospetti come conseguenza certa ed inequivoca dell'evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l'intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata".
In definitiva, ribaltando la prospettiva operata dalla Corte di merito, la Corte di Cassazione sottolinea come la ricorrente sia risultata menomata nella sua sfera psichica in ragione dell'evento lesivo riconducibile all'operato del medico e come, per più fattori non autonomamente concorrenti, tale lesione non le abbia permesso di rielaborare psicologicamente il fallimento dato da una nascita indesiderata, di reggere la lunghezza e complessità di un accertamento giudiziale di un evento lesivo interferente nella sua vita personale di donna, moglie e madre, e di sopportare il peso di una vita sociale compressa e dedicata esclusivamente a una figlia diversamente abile che non sarà mai in grado di diventare autonoma.
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