Riforma Orlando e processo penale


Le sentenze di non luogo a procedere ora sono di nuovo appellabili. E sono state introdotte novità in tema di riti speciali
Riforma Orlando e processo penale
La l. 23 giugno 2017 n. 103 entrata in vigore il 3 agosto 2017 (c.d. ‘Legge Orlando’) ha pure apportato alcune modifiche nel codice di rito nella parte riguardante l’udienza preliminare ed i riti speciali.
Il nuovo art. 428 c.p.p. ha reintrodotto l’appellabilità delle sentenze di non luogo a procedere rese a conclusione dell’UDIENZA PRELIMINARE, istituto già previsto inizialmente nel medesimo articolo e successivamente abrogato dalla l. n. 46/06.
Possono proporre appello gli stessi soggetti che in precedenza potevano solo ricorrere in Cassazione, ossìa il P.M., il P.G. e l’imputato, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso (in sostanza, si appella per ottenere una formula assolutoria più favorevole).
Può altresì appellare la persona offesa, ma soltanto per vizi di notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare. E’ stata inoltre soppressa la facoltà di ricorrere in Cassazione per la persona offesa costituita parte civile.
Il giudizio in Appello - tenuto in camera di consiglio - è quindi lasciato al confronto delle sole accusa e difesa.
La Corte: A) in caso di accoglimento dell’appello dell’accusa dispone il giudizio con decreto o emette una sentenza di non luogo a procedere con formula meno favorevole per l’imputato; B) in caso di accoglimento del ricorso dell’imputato emette sentenza con formula a lui più favorevole.
Avverso la pronuncia di non luogo a procedere emessa dalla Corte di Appello, imputato e P.G. possono ricorrere in Cassazione (che decide anch’essa in camera di consiglio), ma soltanto per i motivi di stretta legittimità di cui alle lettere A. B e C del comma 1 dell’art. 606 c.p.p., con ciò riprendendo il modello del ricorso del P.M. fissato dal nuovo comma 1 bis dell’art. 608 c.p.p..
In tema di GIUDIZIO ABBREVIATO, il novellato comma 4 dell’art. 438 prevede che, qualora l’imputato chieda il giudizio abbreviato subito dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive il Giudice - se vi è istanza in proposito del P.M. - decida sulla richiesta di abbreviato solo dopo un termine non superiore a 60 giorni per dare la possibilità all’Accusa di svolgere indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. L’imputato può tuttavia revocare la richiesta di abbreviato.
Tale riforma è stata evidentemente introdotta per riequilibrare le facoltà di Accusa e Difesa; però potrebbe indurre molti imputati a rinunciare al giudizio abbreviato per timore che le indagini suppletive del P.M. possano essere per loro troppo controproducenti.
Altro elemento che potrebbe convincere l’imputato a non richiedere l’abbreviato è offerto dal nuovo comma 6 bis dell’art. 438, in forza del quale, chiedendo l’abbreviato in sede di udienza preliminare, non si possono più eccepire le nullità non assolute (che risultano sanate) il cui novero, rispetto a quelle assolute, è stato notevolmente ampliato dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni, né rilevare l’inutilizzabilità degli atti (salvo quella derivante dalla violazione di un divieto probatorio, come in materia di intercettazioni), né tantomeno eccepire l’incompetenza territoriale del Giudice.
Tutte queste rinunce imposte a chi intende chiedere un giudizio abbreviato, potrebbero indurre - come su evidenziato - un imputato a recedere dalla richiesta. E questo, a parere di chi scrive, è un aspetto negativo della riforma in quanto il giudizio abbreviato è istituto, al contempo, di favore per l’imputato ed altresì finalizzato a diminuire i tempi del procedimento.
Da ultimo, il nuovo comma 5 bis dell’art. 438 prevede che, in subordine alla richiesta di abbreviato condizionato ed in caso di suo rigetto, possa essere richiesto l’abbreviato semplice o il patteggiamento.
Con il rischio tuttavia che il Giudice - nella pratica quotidiana nei Tribunali, fatta di sovrabbondanza processuale - possa decidere per la ‘via breve’ della concessione del patteggiamento piuttosto che disporre un’integrazione probatoria la quale, pur necessaria ai fini della decisione, potrebbe risultare lunga e laboriosa, ma anche utile e fruttuosa per la difesa.
Tale istituto, ad avviso dello scrivente, rischia di rendere ancora più complicata la gestione della difesa processuale, dovendosi scegliere tra la mera richiesta di abbreviato condizionato (che potrebbe essere rigettata) e la richiesta subordinata di abbreviato semplice o patteggiamento, che però potrebbe risolversi con la disposizione da parte del Giudice di questo ultimo rito, impedendo l’esperimento di una integrazione probatoria.
E conferma alla maggiore futura difficoltà di scelta per la gestione della difesa è data dal nuovo comma 2 bis dell’art. 448 (in materia di APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI o ‘patteggiamento’) che limita per l’imputato (ed il P.M.) il ricorso in Cassazione avverso la sentenza di patteggiamento ai "motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza"; mentre in precedenza la sentenza di patteggiamento era ricorribile in Cassazione per i motivi di cui all’art. 606 c.p.p.
Tornando alle modifiche introdotte in tema di giudizio abbreviato, il novellato comma 2 dell’art. 442 prevede che la pena, in caso di condanna per un reato contravvenzionale, sia diminuita della metà e non di un terzo.
In materia di GIUDIZIO DIRETTISSIMO, il novellato comma 2 dell’art. 452 c.p.c. prevede che, qualora l’imputato abbia chiesto ed ottenuto la trasformazione del rito da direttissimo ad abbreviato, si applichi la disposizione del su citato comma 6 bis dell’art. 438 che comporta le rinunce di cui sopra.
In ambito di GIUDIZIO IMMEDIATO, la nuova versione dell’art. 458 c.p.p. commi 1 e 2 prevede, in caso di richiesta di abbreviato da parte dell’imputato, l’applicazione delle solite disposizioni di cui al comma 6 bis dell’art. 438. Solo che, in tal situazione, è eccepibile l’incompetenza territoriale del Giudice il quale, fissata l’udienza in camera di consiglio, può riconoscere con sentenza la propria incompetenza ed ordinare la trasmissione degli atti al P.M. presso il Giudice ritenuto competente
Infine, in tema di PROCEDIMENTO PER DECRETO PENALE DI CONDANNA, il nuovo comma 1 bis dell’art. 459 c.p.p. modifica i criteri di calcolo della pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva. Il Giudice dovrà individuare un ‘valore giornaliero’ al quale potrà essere assoggettato l’imputato e moltiplicarlo per i giorni di pena detentiva irrogandi. Nella determinazione dell’ammontare il Giudice dovrà tener conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo famigliare. Il ‘valore giornaliero’ andrà da 75 a 225 euro di pena pecuniaria per ogni giorno di pena detentiva e la pena pecuniaria sarà rateizzabile secondo i criteri di cui all’art. 113 ter c.p..
La modifica è stata fatta all’evidente scopo di limitare le opposizioni ai decreti penali di condanna, offrendo condizioni vantaggiose soprattutto ai soggetti non abbienti e, quindi, cercando di deflazionare i processi conseguenti alle opposizioni.
Il dubbio che, tuttavia, viene a chi scrive, è che questa nuova norma costringerà i Giudici a far disporre delle ricerche approfondite sullo stato economico dei condannandi e dei loro familiari per stabilire un valore giornaliero coerente con la loro condizione economica, nonché stabilire il numero di rate della multa o dell’ammenda.
E tali ricerche, se realmente approfondite, potranno portare via molto tempo (considerata, da un lato, la mole annuale di richieste di emissione di decreto penale da parte dei P.M., nonché, da un altro, la circostanza che deve essere vagliata la ‘condizione economica complessiva’ non solo dell’imputato, ma anche del suo nucleo famigliare e, pertanto, la sussistenza o meno di beni immobili, titoli, azioni, fondi comuni, trattamenti retributivi o pensionistici, ecc) prima dell’emissione del decreto. Con la conseguenza che, ad esempio, ad un condannato per reato contravvenzionale con emissione del decreto avvenuta e notificata alcuni anni dopo la consumazione del reato, converrebbe sempre opporsi al fine di tentare di far spirare il termine di prescrizione, vanificando in tal modo in parte l’efficacia deflattiva del nuovo modello.
Inoltre, l’art. 460 c.p.p., vincola il Giudice, con il decreto di condanna, ad applicare la pena nella misura richiesta dal P.M. . Questa disposizione, ad avviso di chi scrive, entra in palese contrasto con la facoltà concessa al Giudice stesso, ex comma 1 bis dell’art. 459, di determinare una pena pecuniaria coerente alla condizione economica complessiva del condannato e del suo nucleo famigliare. Per cui se il P.M. richiede l’inflizione di una determinata pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva, il Giudice, ferma la lettura dell’art. 460, non potrebbe più modificarla.
In aggiunta, vista l’altissima evasione tributaria in Italia, soggetti che pur usufruiscono di notevoli redditi non dichiarati, si troverebbero ingiustamente ad usufruire di una condanna ad una pena pecuniaria mite e, magari, a lungo rateizzabile.
Infine, in caso di richiesta - nell’opposizione - di giudizio abbreviato si applicheranno (ex art. 464 c.p.p.) le già viste disposizioni di cui all’art.438 comma 6 bis.

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di Avv. Carlo Delfino

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