Shopping compulsivo: è motivo di addebito della separazione?
“Non ho denunciato la perdita della mia carta di credito alla polizia perché chiunque l’abbia rubata sta spendendo meno di mia moglie”.
La divertente battuta del tennista Ilie Nastase ha trovato nel corso degli anni l’approvazione di molti uomini avvezzi alla lamentela per le spese delle mogli, ritenute eccessive o superflue (o entrambe le cose).
Come illustrato nel precedente articolo, le modalità di impiego del denaro sono tra le fonti più comuni di disaccordo per le coppie.
Quanto detto vale anche per quella che è da sempre considerata come una delle attività preferite delle donne: lo shopping.
Cliché a parte, le critiche a volte si rivelano esagerate tanto più che sempre più frequentemente i coniugi sono autosufficienti e ognuno è dotato della propria carta di credito.
Ma esistono delle situazioni-limite in cui lo shopping può rappresentare un vero problema, arrivando addirittura a costituire il motivo della separazione.
È il caso dello shopping compulsivo.
Indice:
Lo shopping compulsivo come causa di separazione
Si tratta di un fenomeno descritto per lo più in chiave ironica o macchiettistica in numerosi film, serie Tv e anche nei reality.
In molti avranno in mente il film “I love shopping” dove la protagonista che lavora come giornalista per una piccola rivista che si occupa di questioni economiche, “Far fortuna risparmiando”, è affetta da dipendenza ossessiva da shopping che la rende totalmente incapace di controllarsi di fronte a un negozio di abbigliamento, di accessori o di scarpe.
La tematica viene trattata in modo leggero ma, in realtà, è bene sapere che si tratta di una patologia che, oltre a provocare un notevole sperpero di denaro, rischia di mettere a dura prova le relazioni e può essere anche la causa della fine di un matrimonio.
Infatti, lo shopping compulsivo, detto anche oniomania, è una vera e propria dipendenza che consiste nel desiderio irrefrenabile di acquistare qualcosa alla quale non sono immuni neppure gli uomini, colpiti in misura sempre crescente negli ultimi anni.
Cosa rileva a livello giuridico
Ciò premesso, cerchiamo, come sempre, di capire quali limiti impone il diritto di famiglia, qual è quindi il confine tra la libertà personale e i propri doveri familiari.
Per esempio, il fatto di spendere troppo è sindacabile dall’altro coniuge in ogni caso o solo laddove tale comportamento provochi ripercussioni economiche alla famiglia?
Oppure, cosa succede se un coniuge si prodiga per destinare le proprie risorse nell’interesse della famiglia mentre l’altro le utilizza solo per spese voluttuarie?
Credo di poter sostenere che sono tre le principali caratteristiche che connotano un comportamento giuridicamente rilevante:
1. Il coniuge deve compiere abitualmente spese superiori alla propria capacità economica per acquisti oggettivamente superflui o voluttuari;
2. Le dette spese devono essere personali e potenzialmente in grado di mettere in difficoltà la famiglia sul piano finanziario, consumandone le risorse;
3. Devono essere sintomatiche di un disimpegno economico in danno della famiglia e devono avere come effetto quello di determinare una sottrazione del coniuge al suo dovere di contribuire in misura proporzionale.
A ciò bisogna aggiungere che molto spesso i suddetti acquisti vengono tenuti nascosti al coniuge, configurando un’ipotesi di infedeltà finanziaria.
Le conseguenze sul piano giuridico
Premesso quanto sopra, vediamo quali conseguenze può determinare la sindrome da acquisto compulsivo.
La sindrome da shopping compulsivo può, innanzitutto, tradursi in una violazione del dovere di contribuzione e del dovere di fedeltà, che può portare ad una pronuncia di addebito con conseguente perdita del diritto al mantenimento.
Utilizzando le suddette argomentazioni, in una sentenza del 2013, il Tribunale di Roma ha condannato una moglie all’addebito della separazione a causa dello shopping ‘selvaggio’ finalizzato unicamente all’acquisto di vestiario e profumi. Nel caso di specie la moglie, aveva utilizzato carte di credito e bancomat esclusivamente per proprie spese personali del tutto voluttuarie, mentre il marito aveva sopportato da solo i costi del ménage familiare.
Inoltre, la “oniomania” può determinare una richiesta di amministrazione di sostegno. Il Tribunale di Varese, in una recente decisione, richiamando la Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità, ha ritenuto estendibile anche agli affetti dal disturbo di shopping compulsivo le norme a tutela dell’incapace e ha cosi statuito che la persona che dilapida il proprio patrimonio per acquisti superflui o non necessari può essere assistito da un amministratore di sostegno. La nomina di un amministratore in questi casi implica l’impossibilità per il beneficiario di gestire autonomamente le proprie risorse che verrebbero, appunto, amministrate da una persona nominata dal Tribunale (familiare o terzo, come ad esempio un avvocato).
L’estrema ratio è quella messa in atto da un abitante di Sulmona che, esasperato dai continui acquisti della moglie, ha murato l’ingresso del suo negozio di scarpe preferito. Ovviamente si trattava di uno scherzo. Il muro era di polistirolo, ma il messaggio alla coniuge era stato chiaro.
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