Suicidio in casa di cura e responsabilità
Il suicidio del paziente si sarebbe potuto evitare se, nella casa di cura presso cui era ricoverato, il medico avesse adottato le opportune cautele
È questo, in estrema sintesi, il tema affrontato dalla Sentenza n. 33609, depositata il 1° Agosto 2016, con la quale la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha deciso un grave caso di responsabilità del medico professionista per omessa vigilanza di un paziente affetto da un disturbo psichico.
La dolorosa vicenda ha inizio con il ricovero di una donna nel reparto di Neuropsichiatria presso una ‘casa di cura’.
Per la paziente, due tentativi di togliersi la vita in passato e una diagnosi, all’atto dell’ingresso nella struttura, sin da subito chiara: ‘depressione del tono dell’umore, ansia, insonnia, ideazione negativa a sfondo suicidario e labilità emotiva’.
Sulla scorta di tale valutazione clinica, come rilevato dalla Suprema Corte, il medico psichiatra in servizio aveva l’obbligo di adottare adeguate misure di protezione, ciò al fine di prevenire condotte auto-lesive dei pazienti affidati alle sue cure.
Particolarmente significative, nel senso della conferma della grave negligenza del medico imputato, sono apparse alla Corte di Cassazione le circostanza relative:
· alle condizioni di disagio della paziente evidenziatesi nell’imminenza del fatto;
· le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione;
Infatti, tali elementi rendevano largamente prevedibile e altamente intenso sul piano obiettivo il rischio di un nuovo tentativo di suicidio della donna.
Più in particolare, la patologia psichiatrica diagnosticata alla paziente era stata inquadrata nelle forme di un ‘disturbo bipolare II’, una malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio, valutabile come trenta volte superiore rispetto quello della popolazione generale.
I Giudici, respingendo la tesi difensiva del medico imputato, per lo più incentrata su una ricostruzione incolpevole ed imprevedibile dell’evento lesivo, hanno evidenziato come l’alto rischio di un suicidio della paziente imponesse: ‘la predisposizione di una stretta e continua sorveglianza della donna ventiquattrore su ventiquattro, dall’imputato totalmente omessa. Tale misura non fu in nessun caso e in nessun momento adottata nei confronti della paziente, che risultò pienamente libera di muoversi per tutto l’edificio senza alcuna sorveglianza’.
Sul punto, la Corte ha rilevato che in tali casi è richiesta al medico l’osservanza delle regole tecniche trasfuse nelle linee-guida dello specifico settore psichiatrico riguardanti l’obbligo di sorveglianza e il trattamento farmacologico del paziente:
"...il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele..."
Conseguentemente, la Corte, ravvisata la condotta colpevole del medico psichiatra per aver gestito la situazione della paziente ‘con manifesta superficialità e scoperta negligenza’, rigettava l’articolato ed infondato ricorso, stabilendo a suo carico l’obbligo risarcitorio verso i familiari della donna, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato.
La dolorosa vicenda ha inizio con il ricovero di una donna nel reparto di Neuropsichiatria presso una ‘casa di cura’.
Per la paziente, due tentativi di togliersi la vita in passato e una diagnosi, all’atto dell’ingresso nella struttura, sin da subito chiara: ‘depressione del tono dell’umore, ansia, insonnia, ideazione negativa a sfondo suicidario e labilità emotiva’.
Sulla scorta di tale valutazione clinica, come rilevato dalla Suprema Corte, il medico psichiatra in servizio aveva l’obbligo di adottare adeguate misure di protezione, ciò al fine di prevenire condotte auto-lesive dei pazienti affidati alle sue cure.
Particolarmente significative, nel senso della conferma della grave negligenza del medico imputato, sono apparse alla Corte di Cassazione le circostanza relative:
· alle condizioni di disagio della paziente evidenziatesi nell’imminenza del fatto;
· le notizie anamnestiche legate alle precedenti esperienze di tentativo di suicidio, unite alla diagnosi di accettazione;
Infatti, tali elementi rendevano largamente prevedibile e altamente intenso sul piano obiettivo il rischio di un nuovo tentativo di suicidio della donna.
Più in particolare, la patologia psichiatrica diagnosticata alla paziente era stata inquadrata nelle forme di un ‘disturbo bipolare II’, una malattia caratterizzata da un alto rischio di suicidio, valutabile come trenta volte superiore rispetto quello della popolazione generale.
I Giudici, respingendo la tesi difensiva del medico imputato, per lo più incentrata su una ricostruzione incolpevole ed imprevedibile dell’evento lesivo, hanno evidenziato come l’alto rischio di un suicidio della paziente imponesse: ‘la predisposizione di una stretta e continua sorveglianza della donna ventiquattrore su ventiquattro, dall’imputato totalmente omessa. Tale misura non fu in nessun caso e in nessun momento adottata nei confronti della paziente, che risultò pienamente libera di muoversi per tutto l’edificio senza alcuna sorveglianza’.
Sul punto, la Corte ha rilevato che in tali casi è richiesta al medico l’osservanza delle regole tecniche trasfuse nelle linee-guida dello specifico settore psichiatrico riguardanti l’obbligo di sorveglianza e il trattamento farmacologico del paziente:
"...il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest’ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidiarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele..."
Conseguentemente, la Corte, ravvisata la condotta colpevole del medico psichiatra per aver gestito la situazione della paziente ‘con manifesta superficialità e scoperta negligenza’, rigettava l’articolato ed infondato ricorso, stabilendo a suo carico l’obbligo risarcitorio verso i familiari della donna, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato.
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