Terminator 4.0? Il judgement day premierà le risorse umane

Negli ultimi tempi si parla molto (e si fa ancora poco) di Industria 4.0, digitalizzazione dei processi, smart working, di figure quali l’Innovation Manager, l’esperto di digitalizzazione e così via.
Molte di queste innovazioni rientrano nel paradigma della cosiddetta Industria 4.0, che abbraccia un insieme di misure volte ad incentivare le aziende che innovano i propri processi e i propri macchinari.
Ma non solo: in un’ottica più estesa, Industria 4.0 premia chi fa innovazione non soltanto per aggiornare i propri sistemi e, di conseguenza, i propri prodotti e servizi ma, soprattutto, per acquisire nuova conoscenza, nuove competenze e, volendo scomodare parole enfatiche, per sprovincializzare la propria visione del mondo e del mercato.
Cosa significa “fare industria 4.0”?
Significa semplicemente acquistare nuovi macchinari in grado di essere interconnessi al sistema informativo di fabbrica e di tracciare dettagliatamente la produzione, la cui manutenzione possa essere gestita da remoto?
Significa approfittare dei notevoli incentivi, fino al 2019 in forma di iperammortamento e, dal 2020, di molto più versatile credito di imposta del 40%, 20% e 15% per beni materiali e immateriali, misure peraltro cumulabili con altri incentivi simili quali il credito d’imposta investimenti nel mezzogiorno o i crediti di imposta per ricerca, sviluppo e innovazione?
Significa entrambe le cose, o anche di più?
Industria 4.0, in realtà, cambia la visione di impresa a cui siamo storicamente abituati: non rileva più la dimensione dell’impresa, quanto la sua capacità di posizionarsi nel punto a essa strategicamente più adatto della sua catena del valore. Parlando di piccole e medie imprese manifatturiere, infatti, Industria 4.0 modifica il modo di fare industria, attraverso l’introduzione di soluzioni avanzate che consentono alle imprese di reinterpretare il loro ruolo, impattando lungo tutta la filiera produttiva. Dalla progettazione e disegno del prodotto, per renderlo più “smart”, ma anche gestirne l’intero ciclo di vita, ai rapporti di fornitura e sub-fornitura, per permettere lavorazioni in real time. Dai processi produttivi gestiti come spazi cyber-fisici, ai sistemi di logistica e magazzinaggio, fino al contatto fisico e digitale con il cliente finale, in cui il confine fra fornitura di beni e servizi sarà sempre più labile: ecco perché è possibile parlare di Industria 4.0 come di un vero e proprio ecosistema.
Salta immediatamente all’occhio la perfetta coerenza di questo approccio con le logiche della qualità totale, della produzione snella, del Six Sigma e via dicendo, tanto che l’implementazione di sistemi e metodi di Industria 4.0 funge, a tutti gli effetti, da “traino” di una mentalità nuova, più efficiente, attenta a ridurre gli sprechi e ad aumentare la qualità.
Bene, tutto bello, ma qual è lo scoglio da superare? I soldi da investire? No, questo è solo un alibi che viene totalmente smentito dagli incentivi; incentivi che sono di rapida ed efficace fruizione senza complicazioni burocratiche di pratiche a sportello o di tempi biblici in attesa di approvazione.
Lo scoglio da superare riguarda quello che, con l’avvento delle macchine intelligenti, diventerà paradossalmente sempre più importante: l’uomo, il personale.
«Ma come, si parla di macchinari innovativi automatizzati e tutto, e dobbiamo investire sul personale?»
Sì. Mai come adesso, investire sulla qualità del personale, e le cinque competenze principali che saranno sempre più richieste per supportare la trasformazione digitale sono le seguenti:
• "Deep understanding" della programmazione moderna o delle tecniche di ingegneria software;
• "Digital dexterity", ovvero l’abilità di far leva su tecnologie esistenti o emergenti per risultati di business concreti;
• Data science;
• Connettività;
• Cybersecurity.
Non è un caso che la trasformazione digitale dell’azienda, a detta dei maggiori manager, debba partire proprio dalle Risorse Umane (HR). Ed è proprio il Capo delle Risorse Umane, il CPO (chief people officer), la figura chiave per il cambiamento dell’azienda.
Che deve essere in grado di avere una visione allargata, contaminandosi con altre funzioni e sviluppando nuove competenze in termini digitali. «Un leader per la Digital Transformation» è il nome di una ricerca condotta da Talent Garden, la più grande piattaforma in Europa di networking e formazione per l’innovazione digitale, che ha indagato il fenomeno della digital transformation in relazione all’impatto sulle persone all’interno delle aziende, ai cambiamenti che sta generando in termini di processi, strutture, ruoli e competenze e soprattutto in relazione al ruolo che HR deve avere in uno scenario così mutato. Dunque, l'HR è emerso come vero e proprio motore per il cambiamento digitale dell’azienda, con una visione capace di cogliere necessità e opportunità del digitale.
Da un’indagine svolta su un campione di 500 HR fra le aziende della rete Talent Garden, è emerso che più del 35% vede nell’HR un contributo strategico alla formazione del personale. Ancora più interessante notare che il 25% ritiene indispensabile l’assunzione di nuove professionalità e competenze. Questo significa che le competenze esterne sono sempre benvenute, ma la trasformazione deve avvenire in azienda.
Sì, perché deve essere l’HR a svolgere il primo upgrade delle proprie competenze e mentalità, oltre a spronare e sperimentare nuovi processi interni e strutture organizzative. In accordo con la trasformazione ed evoluzione digitale, deve necessariamente spronare l’organizzazione ad evolvere verso muove modalità di lavoro come lo smart working (di scottante attualità in quest’epoca), l’open innovation e la condivisione delle conoscenze.
D’accordo, ma i vantaggi?
EXS Italia, specializzata in Executive Selection, afferma che con le buone pratiche suddette è possibile spingere la probabilità di successo dell’innovazione dal 20% stimato dal Politecnico di Milano al 75-80%. Naturalmente serve tempo, per il quale gli esperti parlano di un intervallo fra i 6 e i 12 mesi, soprattutto per ciò che concerne il passaggio da uno stile direttivo e transazionale (adottato dall’86% dei 150 team appartenenti a funzioni e aziende diverse analizzati da Exs), a uno di tipo trasformazionale, al momento perseguito solo dal 14% delle organizzazioni considerate.
Ovviamente, in tutto questo discorso sono avvantaggiate le famose startup innovative, che fanno storia a sé poiché, nel loro caso, l’innovazione di prodotto, processo e procedure interne è conditio sine qua non per la loro stessa esistenza.
Le PMI sembrano però meno pronte a collaborare con le nuove imprese innovative: l’85% non è interessato, l’11% sta programmando di farlo in futuro, solo il 4% ha già avviato collaborazioni. Per le PMI la startup è soprattutto un partner commerciale (20%) e un fornitore spot (14%) o di lungo periodo (12%).
Nella mia esperienza di consulenza con decine di piccole e medie imprese, ho sempre notato una buona propensione all’investimento economico in macchinari innovativi, frenata però dalla consapevolezza delle scarse competenze delle risorse umane necessarie per poter, poi, gestire le macchine ed i processi, sia industriali, sia aziendali da (r)innovare; aspetto questo fondamentale affinché i numerosi incentivi possano essere concessi.
Per questa ragione, mai come oggi è fondamentale puntare su figure chiave che possano accompagnare le Aziende ad un processo di innovazione che si concentri anzitutto su procedure e metodi di lavoro del personale: a diventare “smart”, insomma, prima ancora che le reti di fabbrica, deve essere il personale.
La buona notizia è che, quando accade, a trarne vantaggio è il personale stesso: meno carichi di lavoro, meno stress, maggior competenza e consapevolezza del proprio lavoro e, aspetto fondamentale, un notevole incremento nella sicurezza.
L’innovazione, concludendo, premierà chi saprà e vorrà innovare: e premierà il personale, le risorse umane con skills adeguate alle esigenze di un mondo che cambia velocemente. Dopotutto, non dimentichiamoci che, se il cinema ci ha proposto i rischi della famigerata AI Skynet, ad idearla è stata comunque una “risorsa umana” d’eccellenza come James Cameron.
Articolo del: