Whatsapp, vale come prova?

La Settima Sezione penale della Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi in ordine alla «inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, in relazione alla valutazione delle prove documentali costituite dalle trascrizioni dei messaggi telefonici (sms) e delle e-mail, senza che fosse stato acquisito anche il supporto contenente il relativo testo», con l’ordinanza n. 50855 pubblicata in data 17 dicembre 2019 ha ritenuto il motivo manifestamente infondato sulla scorta delle seguenti motivazioni:
«la necessità di acquisire il supporto su cui siano registrate comunicazioni intercorse tra le parti riguarda esclusivamente le ipotesi in cui ad esser documentate siano comunicazioni avvenute tra persone presenti» mentre, «ove vengano acquisiti messaggi scritti e corrispondenza inviata in via telematica, non è necessario a fini di prova che sia acquisito anche il supporto su cui i messaggi siano stati fissati, trattandosi di documenti (“I messaggi “WhatsApp” e gli “SMS” conservati nella memoria di un telefono cellulare sottoposto a sequestro hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., sicché la loro acquisizione non costituisce attività di intercettazione disciplinata dagli artt. 266 e ss. cod. proc. pen., atteso che quest’ultima esige la captazione di un flusso di comunicazioni in atto ed è, pertanto, attività diversa dall’acquisizione “ex post” del dato conservato nella memoria dell’apparecchio telefonico che documenta flussi già avvenuti”: Sez. 5, n. 1822 del 21/11/2017 dep. 2018, Parodi, Rv. 272319)».
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