Bigenitorialità e diritto di visita rispetto all'interesse del minore


La bigenitorialità non si identifica con il mero riparto a metà dei tempi di frequentazione ma richiede, anche attraverso restrizioni al genitore, la tutela del minore
Bigenitorialità e diritto di visita rispetto all'interesse del minore

La separazione dei genitori in presenza di figli minori, interrompendo la stabile convivenza non soltanto tra loro ma anche con i figli, comporta, già di per sé, un’oggettiva restrizione alla possibilità di frequentazione degli stessi, specialmente quando essi siano minori di età. In tal caso, come noto e secondo costante e uniforme giurisprudenza anche successiva all’introduzione della legge in materia di affido condiviso, il minore di età viene collocato in prevalenza presso uno dei genitori, sul quale grava l’obbligo di garantire l’accesso all’altro genitore.

Tra le più rilevanti questioni in ordine alla gestione della frequentazione del minore ve ne sono almeno due:

1) se sia compatibile l’affido condiviso con eventuali restrizioni supplementari poste al diritto di visita;

2) se sia congrua rispetto al miglior interesse del minore l’identificazione della bigenitorialità con il mero riparto in egual misura della frequentazione stessa.

Su entrambi i quesiti, ampiamente ricorrenti nel contenzioso avente ad oggetto la regolamentazione delle visite dei figli minori di genitori in regime di separazione, anche ove non coniugati, o di divorzio, interviene la Cass. civ. Sez. I, Ord., 07-10-2019, n. 24937, con una risposta che si segnala per la sua stretta connessione con le limitazioni oggettivamente poste dalla condizione di separazione dei genitori.

Il focus della regolamentazione è centrato sul miglior interesse del minore a mantenere una stabile frequentazione con entrambi i genitori avuto anche riguardo, tuttavia, alle trasformazioni in essere nel nucleo famigliare che si trova a vivere una vicenda dalla quale intuitivamente originano nuovi ed articolati progetti di vita non più connotati dalla condivisione di un comune indirizzo famigliare.

E attiene al «potere del giudice di merito stabilire le concrete modalità di esercizio del diritto di visita, che non sono sindacabili nelle loro specifiche articolazioni nel giudizio di legittimità, ove è invece possibile sollevare censure solo» ove il «il giudice di merito si sia ispirato, nel disciplinare le frequentazioni del genitore non convivente con il minore, a criteri diversi da quello fondamentale previsto dall’art. 155 del codice civile dell'esclusivo interesse del minore».

Preme precisare che, per quanto il frasario della giurisprudenza risulti talvolta ancorato, anche un po’ paternalisticamente, al concetto di esclusivo interesse, meglio risulta considerare quanto deriva dalla letterale traduzione del best interest ossia il miglior interesse del minore, con la sostanziale differenza tra ciò che, da una parte, pur nella lodevole intenzione di una prevalenza accordata al più debole portatore di interesse, rischia di accordare una tutela antagonista, tendenzialmente litigiosa e immobilista, e ciò che, dall’altra, guarda con attenzione particolare alla nuova struttura che le relazioni famigliari assumono in seguito all’interruzione della convivenza in capo a tutti i componenti della famiglia originaria, nella perdurante, ma trasformata relazione tra di essi.

In questo contesto, questa volta nel quadro di una terminologia fin troppo prudente, si inserisce invece il concetto della «quiete» del minore.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte, infatti, il ricorrente lamentava come, sebbene si fosse in presenza di un affido condiviso, la contrazione del periodo di visita mascherasse «un affido esclusivo di fatto, potendo il padre trascorrere con il minore solo quattro giorni al mese e due pomeriggi con pernottamento» lamentando anche come la Corte territoriale avesse erroneamente «considerato come elemento di disturbo alla quiete del minore il mantenimento di una significativa relazione padre/figlio».

Tuttavia, secondo quanto ricordato dallo stesso ricorrente, la Corte d’Appello aveva rigettato l’istanza «del padre di ampliamento del diritto di visita sul rilievo che il regime dallo stesso proposto (due pernottamenti infrasettimanali nelle settimane in cui non gli compete il week end e due pomeriggi, uno con pernotto ed uno fino alle 21 nelle settimane in cui gli compete il week end, oltre a tutti i pomeriggi fino alle 16) sarebbe estremamente articolato e frammentario, disfunzionale rispetto alla esigenze di stabilità e serenità che devono connotare la quotidianità del minore».

E questa motivazione risulta condivisa e, in certo qual modo, asseverata dalla Suprema Corte che, muovendosi dal principio per il quale la bigenitorialità non si identifica con uno degli strumenti potenzialmente disponibili per la sua attuazione ossia l’equiparazione dei tempi di frequentazione, afferma come si debba ricorrere a detti strumenti, optando sulla base delle circostanze del caso concreto, e adottandoli quando essi risultino idonei ad assicurare l’efficace esercizio della responsabilità genitoriale; deve, quindi, aversi riguardo alla libertà dei genitori di imprimere alla propria progettualità di vita privata e/o professionale l’indirizzo che ritengono più opportuno, salvaguardando altresì l’esigenza di organizzare la stabile frequentazione in capo ai genitori in forme e modi tali da non turbare, ma anzi assecondare l’ordinato sviluppo psicofisico del minore.

 

Articolo del:


di Giuseppe Mazzotta

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