Danno morale biologico: risarcimento e indennizzo?


Risarcimento del danno e indennizzo: il problema della compensatio lucri cum damno
Danno morale biologico: risarcimento e indennizzo?

 

L’accadimento di un evento lesivo può avere come conseguenza non soltanto l’insorgenza di un diritto al risarcimento (secondo quanto previsto dalla regola generale dell’art. 2043, che obbliga chi cagiona un danno a risarcire) ma può anche determinare in astratto il diritto a ottenere un indennizzo, ad esempio qualora si concretizzi un rischio per il quale si era stipulata una polizza assicurativa privata o qualora si rientri nei casi previsti dalla L. 110/92, che prevede che il Ministero della Salute eroghi gli indennizzi ai soggetti “danneggiati” in modo irreversibile da vaccinazioni, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati infetti.

La legge trae origine dall’intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 307/90, dichiarò l’illegittimità della L. 51/96 (sull’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomelitica) nella parte in cui non prevedeva l’obbligo a carico dello stato di corrispondere un’indennità per il danno derivante da contagio, o da altra apprezzabile malattia, causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomelitica, riportato dal bambino vaccinato o da altro soggetto a causa dell’assistenza personale diretta prestata al primo (così Corte Costituzionale 22.06.1990 n. 307).

L’indennizzo previsto regolato dalla L. 210/92 è riconducibile alle prestazioni poste a carico dello stato per motivi di solidarietà sociale e per testimoniare l’interesse della comunità alla tutela della salute. Il fondamento di tale indennizzo viene pertanto individuato negli artt. 2 e 32 della Costituzione. Esso viene erogato a prescindere dalle condizioni economiche dell’avente diritto ed è cumulabile con altre eventuali provvidenze economiche percepite a qualsiasi titolo ed anche se dovute in ragione del danno subito in conseguenza del trattamento sanitario (art. 2 c. 1 l. 210/92).

Il problema su cui ci si intende soffermare è quello del possibile cumulo tra risarcimento del danno e indennizzo che attiene ad un variegato spettro di situazioni, tra le quali spiccano sia quelle di responsabilità medica, che quelle assicurative.

A riguardo si riscontrano due orientamenti giurisprudenziali:

1.    Indennizzo e risarcimento devono venire entrambi riconosciuti, in ragione del fatto che credito risarcitorio e credito indennitario derivano da fonti diverse: il risarcimento ha natura contrattuale (ex art. 2043 c.c.), l’indennizzo trae origine da un rapporto contrattuale. La disciplina dettata dalla L. 2110/92, così come l’indennizzo derivante dalla stipulazione del contratto assicurativo, opera su un piano diverso da quello su cui si colloca il risarcimento civilistico del danno, con conseguente piena compatibilità dei due sistemi in quanto, mentre il secondo presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e lega l’entità del risarcimento ad una valutazione della fattispecie concreta, il diritto all’indennità è direttamente e automaticamente collegato al solo fatto del danno irreversibile, nella misura prefissata dalla legge.

2.    Il secondo orientamento minoritario ma che di recente si sta sempre più affermando, sostiene invece la non cumulabilità dell’indennizzo e del risarcimento: l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato deve essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (c.d. compensatio lucri cum damno), altrimenti la vittima goderebbe di un ingiustificato arricchimento a carico di un medesimo soggetto e derivato da due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo. La locuzione compensatio lucri cum damno allude al principio per cui il giudice, in sede di quantificazione di risarcimento del danno dovuto all’autore, deve tener conto non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito (contrattuale o extracontrattuale), bensì anche degli eventuali vantaggi che si sono venuti a creare nel patrimonio del soggetto danneggiato. La compensatio lucri cum damno è un istituto giurisprudenziale e dottrinale e trova la sua origine direttamente negli artt. 1223 c.c. (risarcimento del danno contrattuale) e 2056 c.c. (valutazione dei danni extracontrattuali) e costituisce il corollario necessario del principio per cui il risarcimento del danno deve adempiere la sua funzione ripristinatoria dello status quo ante, senza che siano provocati ingiusti profitti. Non ha nulla a che vedere con l’istituto della compensazione disciplinata dall’art. 1241 e s.s. c.c. modo di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (per elisione di reciproci debiti) e presuppone l’esistenza di due separati autonomi patrimoni appartenenti a soggetti diversi. La “compensazione” da operarsi tra il lucro e il danno invece è riferibile ad un unico assetto patrimoniale.

Per quanto riguarda il primo orientamento, specificamente all’ambito assicurativo, emblematiche sono tre sentenze della Corte di Cassazione:

Cass. n. 1135 del 1999 è stata pronunciata nel caso di due genitori che, a seguito di lesioni riportate dal figlio in un incidente avvenuto presso la scuola media in cui frequentava la classe prima, avevano visito riconoscere in primo grado la responsabilità dell’amministrazione per “insufficiente organizzazione delle condizioni di sicurezza e di sorveglianza degli allievi” con “condanna del Ministero della pubblica istruzione al risarcimento dei danni causati al minore”. L’amministrazione convenuta aveva opposto in giudizio che i genitori avevano già ricevuto a saldo della compagnia assicuratrice “la somma di lire 6.000.000 a tacitazione di ogni diritto e ragione verso chicchessia”. Quest’ultima, soccombente in primo e secondo grado ricorreva in Cassazione sulla compensatio, e la stessa censurava la pronuncia della Corte nella parte in cui dalla quantificazione dei danni ometteva la detrazione della somma corrisposta quale indennizzo per il grado di invalidità permanente riconosciuto al minore.
I giudici della Suprema Corte, nel respingere il ricorso, hanno precisato che “in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, il principio della compensatio lucri cum damno può trovare applicazione solo nel caso in cui il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito quali suoi effetti contrapposti e, quindi, non opera allorché l’assicurato contro gli infortuni riceva dall’assicuratore il relativo indennizzo per la lesione patita a causa del fatto illecito del terzo, poiché, in tal caso, siffatta prestazione ripete la sua fonte e la sua ragione giuridica dal contratto di assicurazione e cioè da un titolo diverso e indipendente dall’illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione (infortunio) perché questo titolo spieghi la sua efficacia, senza che il correlativo effetto di incremento patrimoniale eventualmente conseguito dall’infortunato possa incidere sul quantum del risarcimento dovuto al danneggiante” (Cass. n. 4475 del 15.04.93).

Anche con la sentenza n. 4950 del 1999 i giudici della Suprema Corte hanno concluso che il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo “quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso”. Nella fattispecie un soggetto investito da un autoveicolo chiedeva il risarcimento dei danni (patrimoniali, biologici e morali) avendo percepito un beneficio da parte delle Assicurazioni Generali presso cui lavorava per la cessazione di lavoro avvenuta a causa dell’incidente. L’importo non era stato considerato dalla Corte come una sorta di acconto del risarcimento liquidato, ma al contrario la fattispecie era assolutamente diversa “avendo come titolo il rapporto dell’odierno ricorrente e la società sua datrice di lavoro”.

Non diverse le argomentazioni nella pronuncia n. 12248/2013 in cui il comune di Napoli aveva chiesto all’Associazione Napoletana della Stampa (locataria di un prestigioso immobile) il risarcimento dei danni da ritardato rilascio. Quest’ultima si era opposta e aveva invocato le migliorie addizioni apportate all’immobile chiedendo di portarne il valore in compensazione. Il Tribunale di Napoli aveva respinto la domanda; il comune aveva interposto gravame e la Corte d’Appello di Napoli aveva condannato la Associazione stessa al risarcimento dei danni. Quest’ultima ricorreva in Cassazione la quale riteneva il ricorso inammissibile escludendo l’identità dei fatti generativi di risarcibilità del danno e del preteso lucrum da opporre in compensazione a quest’ultimo, precisando che “se il fatto illecito costituisce la mera occasione della determinazione del vantaggio patrimoniale, ma non la causa di esso, questo non può né ridurre né lidere il pregiudizio derivato al danneggiato”.

Alla medesima conclusione sono intervenute numerose sentenze, anche in materia di responsabilità medica.

Nel 2007 il Tribunale di Milano aveva accolto la domanda di opposizione al decreto ingiuntivo di una paziente d’ospedale che aveva dedotto un proprio credito nei confronti della stessa per prestazioni mediche varie la ricorrente aveva eccepito in compensazione propri contro crediti risarcitori per danni alla salute cagionati al personale della struttura chiedendo la condanna al risarcimento dei danni.
Il Tribunale non riveniva la compensatio “tenuto conto che la paziente percepisce indennità ex lege n. 310/92 nella misura di 1000 euro a bimestre e l’indennizzo di cui alla medesima non ha natura risarcitoria rispondendo a finalità di assistenza a favore di soggetti che hanno contratto determinate patologie in conseguenza di emotrasfusioni (o vaccinazioni) a prescindere dall’accertamento di una colpa o di un adempimento imputabile a taluno, bensì sul semplice presupposto della sussistenza di un nesso causale tra la sottoposizione alla trasfusione/vaccinazione e l’insorgenza della patologia”.  Dalla diversità delle obbligazioni dalla natura delle attribuzioni patrimoniali e dei soggetti obbligati, discendeva la cumulabilità dell’indennizzo e del risarcimento.

Recentemente tuttavia si è affermato un diverso, minoritario ed opposto orientamento per tutte rappresentativa è la sentenza della Cassazione n. 13233/2014 (c.d. Rossetti) che ha sancito il principio della non cumulabilità delle somme erogabili a titolo di risarcimento spettanti con indennizzo in virtù di una polizza danni contratta dal danneggiato nel caso di specie il ricorrente, riscosso l’indennizzo contrattualmente dovutogli in virtù di un’assicurazione privata contro gli infortuni a causa di un incidente di lavoro, chiedeva altresì il risarcimento per i danni patiti. In merito la Corte motivava “se fosse consentito all’assicurato cumulare indennizzo e risarcimento questi verrebbe ad avere un incidente positivo ad avvalersi del sinistro: il che trasformerebbe l’assicurazione in una scommessa, essendo che il rischio di cui all’art. 1895 c.c. deve essere la possibilità di un avvenimento futuro, incerto, dannoso e non voluto”. La Corte ha anche fatto riferimento alle norme che disciplinano il risarcimento del danno, ricordando che se fosse consentito il cumulo verrebbe violato il principio di integralità del risarcimento in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima di restare vittima del fatto illecito.
La Corte, pur considerando il differente orientamento ha difeso fermamente la propria posizione sostenendo che la diversità dei titoli posti a fondamento della pretesa risarcitoria non può mai servire a superare il principio indennitario e che il cumulo non può escludersi “invocando il principio della inapplicabilità a tale ipotesi della compensatio. Indennizzo e risarcimento non si possono cumulare non perché sia operante il principio della compensazione, ma per una ragione molto più semplice: il pagamento dell’indennizzo assicurativo, nell’assicurazione contro i danni, presuppone che esista un danno. Ma se il terzo responsabile risarcisce la vittima prima che percepisca l’indennizzo, il credito risarcitorio si estingue per effetto dell’adempimento e con esso il danno risarcibile. L’assicuratore non sarà quindi tenuto al pagamento di alcun indennizzo per la semplice ragione che non vi è più alcun indennizzo da corrispondere”.

Il Tribunale di Firenze ha ritenuto applicabile il principio della compensatio al caso in cui l’attrice aveva contratto un’epatite cronica attiva HCV correlata a seguito di una trasfusione e per questo motivo era stato riconosciuto un assegno mensile di euro 551.29 e si era rivolta al Tribunale per ottenere il risarcimento integrale dei danni fisici e morali complessivamente patiti, il giudice di prime cure riferendosi a una risalente giurisprudenza sosteneva in motivazione che sarebbe “evidente l’arricchimento ingiustificato di cui beneficerebbe la vittima che, in relazione allo stesso fatto lesivo del medesimo interesse tutelato, si avvantaggerebbe di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (Ministero della Salute), con l’unica differenza che l’una è determinata in misura tale da coprire l’intero danno e l’altra (l’indennizzo) in misura fissa a prescindere dalla particolarità della situazione concreta e, quindi, dell’effettività del danno. Ciò non si significa che nel caso concreto l’indennizzo non possa di fatto ristorare il danno integrale o addirittura maggiore, nel qual caso si deve riconoscere che un danno risarcibile più non sussiste. E dal condividere quindi la teoria dello scomputo avanzata da parte della dottrina, nel senso che il giudice è tenuto a detrarre dall’eventuale maggiore importo del danno risarcibile (nel caso di illecito colposo dell’amministrazione) quello eventualmente minore liquidato dalla stessa a titolo di indennizzo”.
(Tribunale di Roma, sent. del 08.01.2003, Cass. n. 2785 del 20.01.2015).

Si era così imposta l’applicazione del principio del principio della compensatio lucri cum damno dalla posta risarcitoria liquidata e quanto già percepito dall’attrice fino al deposito della sentenza.
Posta la questione in tali termini, realizzata la giurisprudenza che se né occupata, è comprensibile come la stessa sia riferibile a un variegato spettro di situazioni. I dubbi interpretativi e di applicazione della fattispecie, ancora oggi largamente presenti, impongono un intervento chiarificatore, data l’importanza della questione.

Con l’ordinanza interlocutoria del 23.06.2017 la Cassazione, terza sezione, ha rimesso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione dell’istituto della compensatio lucri cum damno affinché venga chiarita la posizione del danneggiato. L’ordinanza de qua costituisce l’epilogo di un lungo contenzioso tra la società “Itavia” e i Ministeri della difesa e dei trasporti, la tragica vicenda del “disastro di Ustica”. La terza sezione ha chiesto che venga stabilito se i Ministeri responsabili ex art. 2043 c.c. per non aver impedito l’evento siano tenuti a risarcire anche quanto risulta già versato a titolo di indennizzo assicurativo del medesimo danneggiato. Si tratta ovvero di decidere se la compensatio operi soltanto quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via immediata e diretta dal fatto illecito e non operi invece negli altri casi in cui il lucro abbia come fonte la legge o un contratto (ad es. la pensione di invalidità civile, l’indennizzo in caso di emotrasfusione o il contratto di assicurazione privata).

La Suprema Corte ha evidenziato come i problemi nascano innanzitutto nel momento in cui si cerchi di definire la compensatio lucri cum damno e ha riportato i vari orientamenti che si ravvisano in dottrina:
“1) alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un ordinamento giuridico definibile come compensatio lucri cum damno facendo leva sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto;
2) altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione della regola generale, anche se nel singolo caso non può escludersi a priori che con cause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio;
3) altri ancora consigliano la compensatio lucri cum damno regola generale del diritto civile, ed implicitamente presupposto dall’art. 1223 c.c., da dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano conseguenze immediate dell’illecito”
.

In secondo luogo ha passato in rassegna e dettagliatamente esposto i vari orientamenti sviluppatasi in dottrina e in giurisprudenza. Per quanto riguarda la giurisprudenza, è ravvisabile una prima tesi secondo cui l’istituto è applicabile solo qualora sia il lucro che il danno scaturiscano in modo immediato dal fatto illecito (come emerso da alcune delle sentenze in precedenza analizzate); un’altra tesi ritiene l’istituto applicabile in tutti quei casi in cui, altrimenti operando, il soggetto riceverebbe ingiustificatamente due pagamenti. Invero, è principio condiviso quello per cui il risarcimento deve coprire tutto il danno, ma non deve essere il canale attraverso cui il danneggiato si arricchisce (cfr. art. 1223 c.c.). È proprio su quest’ultimo punto che la Corte ha insistito: la regola della quantificazione dei vantaggi economici conseguenti all’illecito in sede di stima del danno risarcibile sarebbe da ricondurre al principio generale di indifferenza (o indennitario), in virtù del quale gli esiti dell’azione risarcitoria non possono rendere la vittima “né più ricca, né più povera, di quanto già non fosse prima della commissione dell’illecito”. La presa di posizione della Sezione rimettente è manifestata apertamente in conclusione: “la percezione dell’indennizzo”, in special modo se di carattere assicurativo o previdenziale, “da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può più essere preteso, né azionato”.

Si attende dunque la remissione e la successiva pronuncia delle Sezioni Unite per fare chiarezza sull’istituto.

È auspicabile, nell’ottica di equità e protezione del danneggiato, soggetto più debole del contratto, che le Sezioni Unite chiamate a decidere sulla questione, accendano all’interpretazione definitiva secondo cui il diritto all’indennizzo ed il diritto al risarcimento, benché legati dallo stesso fatto, poiché traggono origine da fonti diverse, siano cumulabili.

Per quanto riguarda specificamente l’ambito assicurativo, è del pari augurabile che de iure condendo il legislatore operi una netta separazione fra danni a cose e danni alla persona al fine di evitare da un lato duplicazioni risarcitorie ai limiti dell’indebito arricchimento e dall’altro di assicurare al danneggiato i diritti che gli derivano dal contratto, in forza di pagamento di premi assicurativi e quelli che gli derivano dall’aver ricevuto nocumento alla propria persona da fatto illecito altrui. Quanto affermato anche nella considerazione che il valore della cosa è determinato sulla base di riferimenti di mercato che tendono all’oggettività (costo del bene), mentre il valore della persona è determinato sulla base di criteri equitativi sui quali si innestano tabelle di riferimento (tabelle del Tribunale di Milano adottate in modo generalizzato a seguito delle indicazioni della Suprema Corte), che propongono coefficienti di elasticità permettendo al giudice di operare all’interno degli stessi con parere e decisione opportunamente motivati.

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di Studio Capirossi

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