Diritto a conoscere le proprie origini da parte dell’adottato
La tematica relativa al difficile bilanciamento tra il diritto della donna a partorire in anonimato ed il diritto del figlio ad accedere alle informazioni sulle proprie origini è stato al centro di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
La disciplina di riferimento è caratterizzata dall’art. 28, co 5, 6 e 8 della Legge 184/1983 che attribuisce al figlio adottivo, il quale abbia compiuto i 25 anni, il diritto potestativo di accedere a informazioni riguardo alla propria origine risalendo così all’identità dei propri genitori biologici. La norma consente, inoltre, tale facoltà anche al figlio appena maggiorenne, per comprovate ragioni di salute psico-fisica.
Un lungo dibattito Giurisprudenziale ha riguardato l’art. 28, comma 7, della predetta norma, la cui interpretazione ha fatto sorgere notevoli dubbi di legittimità Costituzionale.
Il citato art 28. Comma 7 stabiliva che al figlio nato da parto anonimo fosse preclusa la possibilità di accedere al certificato di assistenza al parto o alla cartella clinica contenenti le informazioni identificative della madre biologica la quale avesse espressamente dichiarato al momento del parto di non volere essere nominata, facoltà consentita al figlio solo una volta trascorsi 100 anni dalla formazione dei documenti, e quindi ben oltre la propria vita. Tale norma risulta essere cristallizzata e non consente alcun intervento da parte del Giudice.
La Corte Costituzionale è intervenuta sull’argomento in parola con Sent. n. 278/2013; nel bilanciamento degli interessi va valutato da un lato il fondamento costituzionale del diritto all’anonimato della madre, dall’altro il diritto del figlio di conoscere le proprie origini. La Corte ha, perciò, censurato la disciplina legislativa in esame nella parte in cui dichiara l’irreversibilità della dichiarazione di segretezza in contrasto con gli art. 2, 3 e 32 Cost.
Ad avviso del giudice a quo, l’art. 28 comma 7 sarebbe affetto da illegittimità costituzionale sotto tre profili: in primo luogo per violazione del diritto all’identità personale garantito dall’art. 2 Cost., di cui il diritto a conoscere le proprie origini non sarebbe che un aspetto. In particolare, la privazione delle radici dell’adottato appare di ostacolo all’esigenza primaria di costruzione della propria identità psicologica. Secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza deve essere qualificato come posizione di diritto soggettivo l’interesse dell’individuo a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione. Il negare a priori l’autorizzazione all’accesso alle notizie sulla propria famiglia biologica, per il solo fatto che il genitore biologico abbia dichiarato di non voler essere nominato, sembra porsi come una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e, dunque, del diritto all’identità personale dell’adottato.
In secondo luogo sarebbe leso l’art. 32 della Cost., norma a tutela del diritto alla salute ed alla integrità psico-fisica, dal momento che l’adottato, che non riesce a ricostruire la sua storia personale, sarebbe afflitto da gravi sofferenze psicologiche. Inoltre, consentendo alla donna di partorire in anonimato, si induce gli operatori sanitari ad omettere persino l’ordinaria raccolta dei dati anamnestici non identificativi della madre.
Le conseguenze sono tutt’altro che trascurabili in quanto una buona anamnesi consentirebbe ai genitori adottivi di programmare interventi e accertamenti diagnostici. La persona abbandonata alla nascita con parto anonimo, ove contragga nel corso della sua vita malattie geneticamente determinate, perde le sempre maggiori opportunità di cura assicurate.
La rigida preclusione di cui all’art. 28, comma 7, viola anche l’art. 3 della Cost., ossia il principio di uguaglianza, per disparità di trattamento, in quanto sottopone ad una diversa disciplina due soggetti che si trovano nella medesima condizione giuridica, quella dell’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza tenere in considerazione, l’eventualità che possa avere cambiato idea.
La Corte Costituzionale, per tali ragioni, con sentenza additiva ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 dell’art 28 della l.184/1983 in contrasto con l’art. 2 e 3 della Costituzione "nella parte in cui non prevede il diritto del figlio di provocare la eventuale revoca della scelta della madre dell’anonimato”. L’intervento additivo consiste nella possibilità per il giudice di interpellare la madre, su richiesta del figlio, su una eventuale revoca di tale dichiarazione.
Gli effetti di tale sentenza, che ha dichiarato Costituzionalmente illegittima la disposizione in esame, comportano che oggi nessun Giudice può negare ad un figlio l’accesso alle informazioni sulle proprie origini sulla base delle dichiarazioni di anonimato della madre al momento del parto.
La sentenza del 2013 specifica che la possibilità per il giudice di interpellare la madre, su richiesta del figlio, si esplichi attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza alla madre, il giudice è così tenuto ad operare un bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio di conoscere le proprie origini.
Per dare attuazione alle indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale, il procedimento da seguire sarà il procedimento Camerale della Volontaria Giurisdizione che, con opportuni adattamenti, deve assicurare la riservatezza della madre basandosi sul rispetto dell’art 93 D.lgs. 196/2005, in materia di protezione dei dati personali, che detta il criterio con cui il giudice, nel procedere all’interpello della madre, dovrà seguire modalità idonee a preservare la massima riservatezza e segretezza nel contattare quest’ultima per verificare se intenda mantenere ferma la dichiarazione di anonimato o intenda revocarla.
Altro utile riferimento ai fini della individuazione della regola del caso concreto è desumibile dal comma 6 del citato art 28, il quale prevede che l’accesso per l’adottato alle notizie sulla sua origine e l’identità dei genitori biologici avvenga con modalità tali da evitare turbamento all’equilibrio psicofisico del richiedente.
Anche la C.E.D.U, con attesissima pronuncia ha condannato, con la Sentenza del 25 settembre 2012 (su Ricorso n°33783/09 - G. c. Italia), il nostro Paese perché la legislazione nazionale prevedrebbe quale ostacolo assoluto (senza spazi per una valutazione discrezionale) a qualsiasi ricerca di informazioni avviata da parte del figlio adottato, la decisione di non essere menzionata della madre naturale adottata al momento del parto, a prescindere dal motivo o dalla legittimità di tale decisione.
La Sentenza CEDU in commento che, come detto, censura l'ordinamento nazionale soprattutto per il carattere assoluto della soluzione legislativa adottata, che peccherebbe perché non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa, assicurando una preferenza "cieca" ai soli interessi della gestante.
La Corte Europea ha, infatti, stigmatizzato che nell'ordinamento nazionale il rifiuto della madre si imporrebbe in qualsiasi circostanza e in modo irreversibile, non offrendo al minore mezzo giuridico alcuno per combattere contro la sua volontà unilaterale.
In tal modo, la madre disporrebbe - a parere della Corte - di un diritto puramente discrezionale di mettere al mondo un figlio in sofferenza e di condannarlo, per tutta la vita, all’ignoranza. Inoltre, la madre potrebbe anche, allo stesso modo, paralizzare i diritti dei terzi, in particolare quelli del padre biologico o dei fratelli e delle sorelle, che potrebbero anch’essi essere privati dei diritti sanciti dall’articolo 8 della Convenzione.
Il fatto che di fronte ad un tema così sensibile e scottante, non si siano cercate soluzioni di equilibrio e nemmeno di definire una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa giustifica la condanna del nostro Paese.
Ora l’Italia, avendo ratificato la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo, dovrà modificare la normativa concernente al “diritto all’oblio”, mitigandola con il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini, quale espressione del diritto all’identità personale protetto dall’articolo 8 della Convenzione quale elemento essenziale della vita privata e familiare di un individuo.
In ultimo si segnala la sentenza del 20 marzo 2018 depositata dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione che riconosce all'adottato il diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l'identità dei propri genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e fratelli biologici adulti, previo consenso di questi ultimi.
“Il diritto a conoscere le proprie origini costituisce un'espressione essenziale del diritto all'identità personale. Lo sviluppo equilibrato della personalità individuale e relazionale si realizza soprattutto attraverso la costruzione della propria identità esteriore, di cui il nome e la discendenza giuridicamente rilevante e riconoscibile costituiscono elementi essenziali, e di quella interiore".
In conclusione: "L'adottato ha diritto di conoscere le proprie origini accedendo alle informazioni concernenti, non solo l'identità dei propri genitori biologici, ma anche quella delle sorelle e fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine di acquisirne il consenso all'accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, da ritenersi impeditivo dell'esercizio del diritto".
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