Equo indennizzo per irragionevole durata dei processi


Legge Pinto, diritto all'equo indennizzo per l'eccessiva durata dei processi, alla luce della legge di Stabilità 2016 e successive riforme
Equo indennizzo per irragionevole durata dei processi

La legge Pinto (legge numero 89 del 24 marzo 2001), è un rimedio introdotto nell’ordinamento sulla spinta delle prescrizioni (e delle ingenti sanzioni) dell'Unione Europea, che accorda a coloro che hanno affrontato un processo di durata irragionevole (ossia oltre i limiti temporali stabiliti dalla legge medesima) la possibilità di richiedere un'equa riparazione per il danno patrimoniale e non patrimoniale subito a causa del ritardo nella definizione del giudizio.

Trattasi, dunque, di strumento processuale volto a contrastare il fenomeno della durata eccessiva dei processi.

Andiamo a vedere cosa debba intendersi per “irragionevole durata dei processi in Italia” da cui scaturisce il diritto all'indennizzo.

Per il primo grado di giudizio la legge ritiene “ragionevoli” tre anni, per il secondo grado due anni e per il grado di legittimità un anno.

Ogni qual volta l'Autorità Giudiziaria tardi a definire il giudizio di intervalli superiori a sei mesi rispetto ai limiti temporali prefissati dal legislatore, scatta il diritto all'equa riparazione.

Altri termini valgono per i procedimenti di esecuzione forzata, che si considerano di durata ragionevole se contenuti nel termine di tre anni, e per le procedure concorsuali, che si considerano di durata ragionevole se contenute nel termine di sei anni.

Il termine ragionevole si ritiene in ogni caso rispettato se il giudizio definitivo e irrevocabile giunge nel termine complessivo (compresi tutti i gradi di giudizio) di un massimo di sei anni.

Ai fini del computo della durata occorre fare riferimento a criteri differenti a seconda che il processo sia di natura civile o di natura penale: nel primo caso, il termine decorre dal deposito del ricorso introduttivo o dalla notifica dell'atto di citazione; nel secondo, invece, il termine decorre da quando l'indagato viene a conoscenza del procedimento penale a suo carico mediante un atto emesso dall'autorità giudiziaria.

A tal proposito si segnala che è stata la Corte costituzionale che, con sentenza numero 184 del 23 luglio 2015, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 2-bis, della legge Pinto nella parte in cui prevedeva che potesse essere considerato termine iniziale per il computo della durata ragionevole del processo penale l'assunzione della qualità di imputato o il momento in cui l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

Per quanto riguarda gli aspetti squisitamente processuali deve rilevarsi che il ricorso legge Pinto va presentato dalla persona che ha subito il danno (e, dunque, che sia stata parte nel giudizio presupposto, non importa se vincitrice o soccombente), assistita da un legale munito di procura speciale con ricorso al presidente della Corte d'appello del distretto in cui ha la sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo contestato.

A pena di decadenza, il termine per provvedervi è di sei mesi dal momento in cui è divenuta definitiva la decisione che ha concluso il procedimento. Tuttavia deve precisarsi che a seguito di una recente sentenza della Corte Costituzionale (21 marzo - 26 aprile 2018, numero 88), è comunque possibile proporre il predetto ricorso anche prima della chiusura definitiva del procedimento, senza attenderne la sua definizione, purché naturalmente i limiti temporali fissati dalla legge siano spirati.

La controparte è istituzionalmente il Ministro della giustizia se il procedimento presupposto è un procedimento ordinario, il Ministro della difesa se il procedimento presupposto è un procedimento militare e il Ministro dell'economia e delle finanze in tutti gli altri casi.

Si badi bene, a pena di improcedibilità è necessario allegare al ricorso introduttivo una serie di documenti.

In particolare, al ricorso vanno sempre allegati, in copia autentica, l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento presupposto, i relativi verbali di causa e provvedimenti del giudice e il provvedimento che ha definito il giudizio.

Una volta ricevuta la domanda di equa riparazione, il presidente della Corte d'appello o magistrato all'uopo designato provvede entro trenta giorni con decreto motivato immediatamente esecutivo.

Si tratta, quindi, di un giudizio monocratico che si svolge senza udienza.
Se il ricorso viene accolto, il giudice ingiunge al Ministero convenuto di pagare la somma liquidata senza dilazione e autorizza la provvisoria esecuzione. Con il medesimo decreto vengono anche liquidate le spese di giudizio.

A questo punto sarà cura della parte, a pena di inefficacia del decreto senza possibilità di riproporre la domanda, di notificare al Ministero della giustizia sia il ricorso che il decreto entro trenta giorni dal deposito del provvedimento in cancelleria.

Qualora, invece, il ricorso venga respinto, la domanda non potrà più essere riproposta.
Infine, si evidenzia che con la Legge di stabilità 2016 è stato introdotto un importante limite alla indennizzabilità del ricorrente: l'indennizzo, difatti, non viene riconosciuto in favore della parte che nel processo presupposto sia stata condannata per lite temeraria o che risulti, comunque, consapevole dell'infondatezza originaria o sopravvenuta della sua posizione (tale seconda ipotesi, soggiace come è evidente ad un regime probatorio particolarmente gravoso).

Per quanto riguarda l'impugnabilità del provvedimento che definisce il giudizio per equa riparazione, si precisa che avverso la decisione sul ricorso è possibile proporre opposizione dinanzi alla stessa Corte d'appello nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione del relativo provvedimento.

La Corte di appello, la quale ha ampio potere di riforma sia per motivi di merito che di legittimità, si pronuncia con decreto motivato entro quattro mesi dal deposito del ricorso.
Anche tale decreto è immediatamente esecutivo, ed è ricorribile per Cassazione.

Tanto rappresentato dal punto di vista procedimentale, occorre adesso soffermarsi sulle recenti modifiche che hanno ridimensionato l'istituto in parola, ridisegnandone i confini ed i c.d. “tariffari”.

In particolare, la Legge di Stabilità 2016 ha introdotto notevoli modifiche in merito, consistenti nella diminuzione dell'ammontare dell'indennizzo per ciascun anno o frazione ultrasemestrale di ritardo, nonché nella introduzione di condizioni di procedibilità a pena di inammissibilità, di non poco momento.

La richiesta dell'indennizzo, oggi, non è più legata esclusivamente all'eccessiva durata del procedimento presupposto, ma all'aver esperito, previa inammissibilità della domanda, i provvedimenti preventivi ex art. 1-ter della legge n. 89/2011.

Ed in particolare, in ambito civile:

1. Aver introdotto il giudizio nelle forme del procedimento sommario ex art. 702-bis e seguenti c.p.c.;

2. Aver formulato, entro l'udienza di trattazione e, comunque, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'art. 2-bis, richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell'art. 183-bis c.p.c.;

3. Nelle cause in cui non si applica il rito sommario di cognizione, costituisce rimedio preventivo, proporre istanza di decisione, almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'art. 2-bis, a seguito di trattazione orale ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c.;

4. Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice istruttore, quando ritiene che la causa può essere decisa a seguito di trattazione orale, rimette la stessa al collegio fissando l'udienza collegiale per la precisazione delle conclusioni e per la discussione orale.

In ambito penale, invece, l'imputato e le altre parti del processo penale hanno diritto di depositare, personalmente o a mezzo procuratore, un'istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all'art. 2-bis.

La legge ha precisato, inoltre, che non è riconosciuto alcun indennizzo:

1. In favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell'infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese;

2. Nel caso di cui all'art. 91, primo comma, secondo periodo, c.p.c. e precisamente: "se accoglie la domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 92";  

3. Nel caso di cui all'articolo 13, comma 1, primo periodo, d.lgs. n. 28/2010 e precisamente: "Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di un'ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l'applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l'indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all'esperto di cui all'articolo 8, comma 4";

4. In ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione.

L'attuale legge di Stabilità ha riformulato in peius anche la misura dell'indennizzo.
Prima  della riforma tale somma era compresa in una forbice (abbastanza larga) tra i 500,00 e i 1.500,00 euro per ogni anno di ritardo; tale misura è stata ridotta in una somma di denaro non inferiore ad euro 400,00 e non superiore ad euro 800,00 per ciascun anno di ritardo; somma che può in ogni caso essere incrementata fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo, ovvero diminuita fino al 20% quando le parti del processo sono più di 10 e fino al 40% se sono più di cinquanta.

Dal punto di vista documentale, è previsto attualmente che all'amministrazione debitrice una dichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.p.r. n. 445/2000, al fine di richiedere il pagamento delle somme liquidate, il creditore debba rilasciare attestazione di mancata riscossione delle somme per il titolo, l'esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l'ammontare degli importi che l'amministrazione è ancora tenuta a versare, la modalità di riscossione prescelta, nonché a trasmettere la documentazione necessaria.

Le somme dovrebbero essere corrisposte entro sei mesi dalla data in cui sono integralmente assolti gli obblighi previsti dalla suddetta legge.

Ma veniamo all'aspetto pratico.

Una volta ottenuto il tanto agognato indennizzo quanto è ragionevole attendere prima di incassare le somme liquidate dalla Corte d'Appello?

E' necessario fornire qualche numero.

Ad oggi ci sono circa 17 mila ricorsi l’anno che, quando accolti, comportano l’attesa di almeno 2 anni per la liquidazione.

Per evitare che l'irragionevole durata si manifesti anche nel corso del giudizio per equa riparazione (il che sarebbe un esilarante paradosso) si sono rese necessarie le modifiche alla “legge Pinto” contenute in un emendamento al decreto legge “Semplificazioni” n. 135/2018, che prevede una procedura di accelerazione dei pagamenti degli indennizzi per i processi lenti in favore di chi abbia subito una violazione dei diritti proprio a causa dell’irragionevole durata.

Innanzitutto, le misure correttive prevedrebbero l'impiego di 30 nuovi funzionari, con laurea in giurisprudenza, che dovrebbero occuparsi dello smaltimento delle pratiche arretrate ed alla gestione delle pratiche future.

È prevista, inoltre, una difesa diretta in giudizio: durante il processo saranno presenti un dirigente o un funzionario del Ministero e non più l'Avvocatura dello Stato.

Di certo l'incremento dell'organico potrebbe rappresentare, seppur in maniera nettamente più cospicua, una soluzione non di poco conto, la quale potrebbe segnare la via, per le Istituzioni, per l'individuazione e la reale soluzione del problema della ragionevole durata e del sistema Giustizia inteso nel suo complesso: “la carenza di organico dei magistrati”.

 

Articolo del:


di Avv. Gabriella Tutone, Avv. Luca Giudice

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