Gli accordi con rinuncia a diritti futuri hanno valore?
Si può rinunciare a diritti futuri, a diritti che non abbiamo adesso, ma che avremo forse domani?
Accade di aver bisogno di venire ad un accordo con un avversario, per esempio un padrone di casa che ci sfratta e a cui chiediamo una dilazione, o con il nostro datore di lavoro per una transazione che ci eviti il rischio di una condanna, o con un cliente importante che ci può concedere un appalto se però in cambio…
In alcuni casi (pochi) la legge espressamente vieta patti di questo genere: il padrone di casa ci dà un po’ di respiro, ma in cambio ci chiede la rinuncia preventiva alla prescrizione e noi, con l’acqua alla gola, firmiamo. Ebbene, quella rinuncia è nulla, ex art. 2937 c.c. (“Non può rinunziare alla prescrizione chi non dispone validamente del diritto.
Si può rinunziare alla prescrizione solo quando questa è compiuta. La rinunzia può risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione.”) e neppure si possono abbreviare o allungare i tempi della prescrizione (art. 2936 c.c.).
Ma negli altri casi, non espressamente previsti dalla legge?
A fil di logica la rinuncia a diritti futuri pare sfornita di validità perché si rinuncia a qualcosa che non si ha e che forse non si avrà mai, ma le cose future possono essere oggetto di prestazione e, per quanto riguarda l’affidamento al verificarsi di eventi imponderabili, è appena il caso di ricordare i contratti aleatori.
Cosa dice il giudice del lavoro
Nell’ambito del diritto del lavoro, dove gli accordi transattivi sono incoraggiati dalla legge e dalla durata dei tempi della giustizia, la richiesta padronale di rinuncia a diritti futuri è frequente. Tuttavia la giurisprudenza attuale scoraggia questo genere di accordi.
Cass., sent. 11 ottobre 2018, n. 25315 ha negato validità ad un accordo transattivo, relativo a causa d’appello, in materia di interposizione illecita di mano d’opera. I lavoratori, per conservare il loro posto di lavoro, avevano rinunciato agli scatti di anzianità e avevano tratto vantaggio da quest’accordo, salvo poi ripensarci. Lo avevano perciò impugnato, pretendendo il diritto, cui avevano rinunciato.
Sono andati in causa e hanno perso in primo grado e in secondo grado, ma hanno vinto in Cassazione.
La Corte d’appello, nel dar torto ai lavoratori, aveva rilevato che essi “avevano accettato, di dare vita ad un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; non poteva, d’altra parte, sostenersi che i lavoratori avessero abdicato a diritti futuri perché la rinuncia contenuta nel verbale di conciliazione aveva avuto ad oggetto diritti che erano già maturati ed il cui accertamento, unitamente all’esistenza del rapporto con R.F.I. (il datore di lavoro), da cui dipendevano, era ancora sub iudice”.
La Cassazione, invece, ha ritenuto che “il regime di eventuale mera annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, previsto dall’art. 2113 cod. civ., riguarda soltanto le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito”.
La Cassazione dice che il diritto agli scatti di anzianità è inderogabile e quindi non può essere oggetto di rinuncia, neppure per accordo sindacale, ma – attenzione – se un accordo del genere vien comunque fatto non è nullo, ma soltanto annullabile ex art. 2113, che fissa un termine di decadenza al comma 2: “L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima”.
Se non si impugna, entro quel termine, l’accordo, questo, ancorché in deroga a norma che non si poteva derogare, è valido.
La norma può lasciar sconcertato il lettore, digiuno di legge, ma tale è. La Cassazione, tuttavia, aggiunge: questa possibilità, offerta dall’art. 2113, di fare accordi in barba alla proibizione di legge e poi di sanarli, vale solo per gli scatti di anzianità già intervenuti, non per quelli che verranno: posso rinunciare a diritti che avevo già a mia disposizione, non per quelli futuri.
Questo perché la legge mi offre una scappatoia per il passato, facendo un’eccezione che, però, tale deve restare. Se si consente, mediante accordi, di derogar sempre a norme inderogabili di legge ed ai CCL, la legge e i contratti collettivi si trovano ad esser integralmente snaturati.
La Cassazione individua le norme che impediscono tale snaturamento stabilendo non l’annullabilità degli accordi, ma una sanzione più grave: la nullità o l’invalidità e l’inefficacia.
Queste norme, indicate nella sentenza in esame, sono gli articoli 1418 e 2077 c.c..
Per l’art. 1418: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'articolo 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'articolo 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Per l’art. 2077: “I contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo.
Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più̀ favorevoli ai prestatori di lavoro”.
Tale principio vale solo per le norme inderogabili?
Tale principio vale solo per le norme inderogabili? No, secondo l’opinione prevalente nell’ambito del diritto del lavoro: nessun diritto futuro (e quindi anche quello derogabile) può esser rinunciato. Lo ha stabilito Cass. n. 23087/2015 sempre in base agli articoli 1418 e 1325: non essendo entrato il diritto futuro nel patrimonio del lavoratore, manca l’oggetto del contratto e, pertanto, la rinuncia è radicalmente nulla.
Nel caso della rinuncia all’impugnazione di licenziamento non si verte in materia di diritto indisponibile giacché il lavoratore può senz’altro disporre di tale diritto, ma purché questo faccia già parte del suo patrimonio e cioè ne sussistano le condizioni e cioè il licenziamento sia avvenuto e comunque si siano verificate le condizioni che lo giustifichino.
Va detto che questa posizione, non contraddetta da successive pronunce della Corte Suprema, non è sempre condivisa dai giudici di merito e da altre sezioni della stessa Cassazione che, invece, si basano su un altro principio: quello della determinabilità del diritto futuro.
E’ il caso di Cass., sez. I, 17 luglio 2014, n. 16365. Qui non si verte in materia di lavoro, ma di appalto di diritto privato. Un appaltatore rinuncia al risarcimento dei danni futuri per eventuali sospensioni di lavori per fatti imputabili all'amministrazione o indennizzi derivanti da imprevisto geologico.
La Corte in questa sentenza dà atto che anche in settori diversi dal lavoro subordinato esistano orientamenti particolarmente severi che escludono rinunce a diritti futuri non ancora entrati nel patrimonio del soggetto (si veda: Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2013, n. 3064, sentenza emessa dalla medesima sezione), ma opta per un indirizzo meno rigoroso.
Se la clausola si riduce a rinuncia a diritti futuri sic et simpliciter è nulla senz’altro.
Se, invece, la clausola indica un termine predeterminato di sospensione, l’accordo è valido.
Al di là del merito, il principio è questo: se l’oggetto del contratto è determinato o facilmente determinabile, l’accordo è valido, perché non si può ritenere che ci sia carenza di oggetto.
Questo secondo orientamento in materia di rinuncia dell’appaltatore a diritto al risarcimento per danni futuri, afferma la validità della rinuncia solo se dal testo della transazione si ricavino gli elementi oggettivi ben chiari al momento della rinuncia in modo tale che il soggetto, qualora la rinuncia pretesa da controparte indicasse condizioni non sopportabili, abbia titolo per rifiutarne la sottoscrizione e perciò l'accettazione.
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