Gli accordi recepiti in sentenza di divorzio sono legge tra le parti


Sono inapplicabili agli ex coniugi i criteri di interpretazione ed applicazione del contratto agli accordi sulla base dei quali è stata emanata una sentenza di divorzio
Gli accordi recepiti in sentenza di divorzio sono legge tra le parti

«La circostanza che, ai fini della disciplina dei rapporti tra i coniugi e di quelli con la prole, la sentenza (sia in tema di separazione personale, che di divorzio) abbia tenuto conto delle concordi indicazioni delle parti, non consente di attribuire natura negoziale alle condizioni in essa stabilite, il cui recepimento costituisce il risultato di un'autonoma valutazione giudiziale, soprattutto nella parte avente ad oggetto l'affidamento della prole e la determinazione del contributo dovuto per il suo mantenimento, in ordine ai quali le richieste dei genitori non assumono carattere vincolante, perché il giudice del merito deve ispirarsi, nelle relative scelte, all'esclusivo interesse della prole (cfr., Cass. n. 20055/2017, Cass. n. 10659/1992) e, quindi, valutare, anche in occasione della sottoposizione dell'accordo, la rispondenza dello stesso a detti criteri».

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, Sez. I, Ord., (data ud. 11/05/2023) 04/07/2023, n. 18785, decidendo su una vicenda avente ad oggetto gli accordi che i genitori, in sede di divorzio, avevano raggiunto in ordine al mantenimento della figlia, impegnandosi il padre al versamento alla madre di una complessiva somma, parte della quale, nella misura concordata, sarebbe dovuta restare sul conto corrente intestato alla figlia sino al raggiungimento da parte della Stessa questa dell’età di venticinquenni anni.

Trasferitasi presso il padre, la figlia perde il diritto al mantenimento, essendo questo divenuto diretto; almeno questo è ciò che concordemente sostengono i genitori, per quanto riguarda la parte fruita mensilmente e non invece quella accantonata.

Materia del contendere è la decorrenza della revoca, considerato che la stessa dipendeva da un fatto sopravvenuto, il trasferimento, appunto della figlia, avvenuto nel corso del giudizio di appello nel quale è stata disposta, tuttavia non a decorrere dal provvedimento che definisce il giudizio ma dal momento antecedente della sua verificazione.

Questi elementi sono stati riportati alla Corte di Cassazione dalla madre la quale lamentava «la revoca dell'assegno di mantenimento è stata fatta retroagire, rispetto alla pronuncia, al mese di maggio 2020, con riferimento ad una circostanza di fatto – il mutamento della collocazione della figlia, trasferitasi presso il padre – Deduce che, al contrario, la revoca avrebbe dovuto divenire efficace solo dalla successiva data della pronuncia».

Dato anche l’importo dell’assegno la data di decorrenza costituiva motivo di particolare interesse in giudizio, sia pure per opposti motivi in capo al padre, tenuto al versamento, ed alla madre, avente diritto a riceverlo; quel che è risultato subito assai chiaro è che la Corte d’Appello ha applicato agli accordi dei coniugi i criteri interpretativi che sono previsti dalla legge in materia di contratti e non ha applicato la regola per la quale fintanto che una statuizione del Giudice è vigente, tempus regit actum, esattamente come avviene rispetto alla legge e nessun effetto diverso può ricondursi a quel provvedimento, se non al momento in cui lo stesso non risulti modificato o sostituito da altro. Trattasi evidentemente, in quest’ultimo caso della regola del giudicato che, per quanto rebus sic stantibus, ossia con la possibilità di successivi provvedimenti che, al mutare delle circostanze, subiscono la modifica dei loro contenuti, prevede comunque la stabilità delle regole in essi stabilite senza che il comportamento delle parti possa direttamente determinarne la cessazione o la modifica.

In altri termini se in un contratto la condotta di una delle parti è idonea a far venir meno il diritto in esso riconosciuto, salvo, in caso di disaccordo, l’intervento del giudice che accerterà il fatto ed il momento nel quale esso si è verificato, non così può accadere nel caso in cui venga costitutivamente modificato il contenuto di una sentenza. E ciò proprio per effetto del giudicato. La sentenza è legge tra le Parti e come una legge la sua vigenza è legata alla sua esistenza, fino alla sua disposta cessazione e su questo le Parti non hanno certo possibilità di intervento alcuno.

Il dubbio, che ha attraversato il giudizio di Corte d'Appello ove è stato commesso l’errore per il quale la Cassazione ha disposto il rinvio per una nuova decisione, è se il recepimento in sentenza di accordi delle Parti valga a consentire l'applicazione alla sentenza dei criteri ermeneutici previsti per l'applicazione del contratto. E la risposta è negativa per i seguenti motivi:

«Qualora l'accordo convenzionalmente raggiunto tra i coniugi abbia conseguito il suo riconoscimento con la sentenza - come nel presente caso -, è il giudicato (sia pure, rebus sic stantibus) a dover essere preso in considerazione. La natura del giudicato, quale regola del caso concreto, comportandone l'assimilabilità agli elementi normativi della fattispecie, esclude peraltro la possibilità di ricorrere, ai fini della sua interpretazione, ai criteri ermeneutici dettati per le manifestazioni di volontà negoziale, trovando invece applicazione, in via analogica, i principi dettati dall'art. 12 preleggi, e dovendosi quindi procedere alla ricostruzione del comando oggettivato nella sentenza attraverso l'integrazione del dispositivo con la motivazione che lo sostiene, avendo riguardo, ove residuino incertezze interpretative, anche alle domande proposte dalle parti, nonché alle risultanze degli atti processuali (Cass. n. 10174/2012; cfr. Cass. Sez. U. n. 11501/2008; Cass. n. 21961/2010; Cass. n. 1093/2007; Cass. n. 2721/2007).»

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di Giuseppe Mazzotta

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