Il dolore del divorzio e il "perchè" inespresso

La separazione coniugale denominata da alcuni “separazione inconsolabile”, da altri “legame disperante” (Cigoli, Galimberti, 1988; Pappalardo 1994) è un legame che finisce, o non vuol finire, e spesso non riesce a finire.
In mezzo a tutto i figli e, se i partner la accettano, la mediazione familiare a cui i due partner si rivolgono per dirimere la conflittualità su situazioni contingenti, ma anche per farsi accompagnare in un percorso di elaborazione della fine, che sentono troppo doloroso per entrambi o per uno dei due.
In alcuni casi uno o entrambi i partner si affidano a una psicoterapia, per fare questo percorso e sentirsi sostenuti. L’inconsolabilità diventa quel “legame disperante" prima citato, una situazione senza futuro, in cui i due coniugi, come i “duellanti” sono eternamente legati tra loro senza, però, avere prospettiva alcuna di evoluzione in nessun senso.
I due protagonisti pian piano rimangono fuori dal tempo che continua a scorrere e, in quanto posti fuori dalle dinamiche temporali, rimangono fissi, come personaggi di un romanzo che è il loro ma che nessuno vuol sentire e che non è più utile a nessuno.
Dietro l’inconsolabilità c’è una ferita diversa per ogni storia e per ogni persona: di solito è la ferita del venir meno di un patto iniziale, di un atto sacro e perciò sociale che viene messo in discussione.
Cigoli ha messo in risalto come esista una dimensione sacrale nelle relazioni tra genitori e figli in quanto attiene al rapporto tra generare ed essere generati. Questo richiama al senso di responsabilità: i figli non sono proprietà dei genitori, appartengono piuttosto ma devono essere “donati” al contesto sociale.
Nella separazione coniugale sta al centro delle preoccupazioni più o meno esplicite la connessione, o la sua mancanza, tra le generazioni. E questo richiama un nuovo criterio di responsabilità.
Ora è proprio del dolore il perdere di vista la responsabilità e anche dove la responsabilità attenga al ruolo genitoriale, spesso il dolore della separazione provoca proprio la perdita di un ruolo genitoriale, che dovrebbe stare al di sopra della conflittualità coniugale e quindi salvaguardare i figli dalla perdita dei loro legami con entrambi i genitori.
In realtà tutti sappiamo che non è così nella stragrande maggioranza dei casi. E questo succede proprio perché nel dolore, nella sofferenza della separazione o nell’intensità del coinvolgimento conflittuale tra coniugi, i figli vengono arruolati, vengono armati, a volte vengono mandati allo sbaraglio, a volte sono trasformati in confessionali o usati irresponsabilmente.
Chi ha il dovere di mantenere ferma la responsabilità se i due coniugi non ci riescono?
Gli operatori che a diverso livello lavorano con le persone che si separano. Forse sta proprio nella appartenenza della famiglia alla categoria del sacro che impedisce agli operatori di coinvolgersi e stare nella relazione con le persone che si separano quasi che ci fosse la paura di toccare quella sacralità, di partecipare a quel dolore.
Eppure se il sacro attiene al sociale, gli operatori che in questo sociale lavorano dovrebbero essere i primi ad occuparsene, non nel senso di evitare o impedire la separazione, bensì nell’intervenire perché la responsabilità del rapporto tra chi genera e chi è generato sia sempre tenuta presente e si mantenga la relazione tra genitori e figli, al di là di quella tra coniugi.
Ma per i due coniugi, il toccare il totem equivale all’esperienza di rompere il velo intoccabile, di nuovo di cogliere la mela di Eva o l’essere divelto da un uragano come un albero con tutte le proprie radici al vento. Rimettere in discussione ciò che è sacro comporta spalancare le porte al dubbio e infatti le persone coinvolte nelle separazioni sono solite essere assalite da domande invadenti e pervasive: perché? Sia che appaia sotto forma della domanda: “Perché è finita?” sia che si configuri come “Perché ho sposato quest’uomo o questa donna?” come spesso si chiede chi la separazione la agisce per primo /a.
La domanda: “Perché?” è l’assillo quotidiano delle persone che si separano; è una domanda che abiterà nei loro cuori a lungo e a volte alberga in loro eternamente, o meglio, cronicamente. La domanda sul perché sia finito il matrimonio non trova una risposta perché chiunque cerchi una risposta razionale o almeno legata ai fatti, non placa la disperazione di chi subisce la separazione; non acquieta la sua mancanza, poiché sarà sempre il senso di sorpresa, di incredulità ad avere il sopravvento.
La maggior parte delle persone che subiscono la separazione, l’accolgono sempre come un fulmine a ciel sereno. Non se lo sarebbero mai aspettato. Eppure ci sono sempre dei segnali e dei precursori della separazione. Di solito, anzi, i temi della separazione sono ben conosciuti da entrambi.
Eppure c’è una reazione di sbalordimento, di catastrofe improvvisa e inaspettata. In realtà ciò che era inaspettata e che è vissuta come catastrofica è la mancanza, non tanto di lui/lei ma soprattutto del progetto, conseguenza della rottura del patto.
Il patto coniugale (Cigoli,2000) si colloca tra la dichiarazione di impegno (fedeltà al legame nella gioia e nel dolore…) e la presenza di una dimensione inconsapevole; in questo senso il patto è un’organizzazione relazionale (costituito da: la comune attrattiva, la con-sensualità, la consapevolezza, l’impegno a rispettarlo, la delineazione di un fine).
Da questa ottica, quindi il matrimonio è un patto fiduciario costituito a sua volta di una parte dichiarata esplicitamente (l’impegno che ciascuno si prende e di una parte inconsapevole di bisogni, di speranze, di paure, di valori, aspettative e ideali di ciascuno dei due partner, detto appunto patto segreto).
Mentre il patto dichiarato si rifà al registro etico, quello segreto al registro affettivo. La rottura è giustificata da chi la promuove come un’impossibilità ad avere un futuro. Quando il patto si infrange, quello che viene a mancare è il legame nel senso della complessità tra patto dichiarato e patto segreto che si rifà al futuro.
Il patto infranto lascia chi subisce la separazione con una mancanza di articolazione sul futuro, lo lascia con i recettori aperti e bisognosi di ricevere la sostanza per i quali si sentivano progettati: è il progetto (magari inespresso o rimasto nella propria testa) che non c’è più, è il legame espresso praticamente nel progetto di vita che viene ora a mancare.
Chi subisce la separazione sa, razionalmente, che sono cose che succedono, ma in quel momento vive la disperazione di chi rimasto incomprensibilmente senza una parte del progetto: senza futuro in un eterno momento drammatico. D’altra parte quel patto segreto era costituito anche da parti di sé che venivano affidate all’altro /a in un’alleanza giocosa, fatta di seduzione e bisogno da soddisfare, chiamata collusione; con la separazione una parte di sé viene quasi derubata: chi subisce la separazione non trova più non solo il progetto che aveva, ma sente mancare quella parte di sé che aveva conosciuto nell’incontro con l’altro/a e che veniva proprio dalla relazione.
Rispetto alla fine del patto non è tanto la razionalità e la precisione che può essere fatta dall’esterno che risulta di sollievo, bensì la vicinanza e la condivisione della sofferenza, per poi aiutare a rialzare la testa. D’altra parte anche chi cerchi di accontentare la persona che subisce la separazione, rinforzando o accondiscendendo alla sua tesi, non collabora a calmarlo/a ma non fa che co-costruire il suo romanzo senza fine e perciò a moltiplicare il dolore e la disperazione fino a creare una persona eternamente sofferente per sua stessa natura.
Per esempio sostenere la persona accondiscendendo alla sua rabbia e contribuendo alla ricerca del colpevole esterno, che porta sulla cattiva strada, o che fa impazzire l’altro o che fa su di lui/lei un incantesimo, tale da stravolgerlo quasi drogarlo, non serve a farle/gli trovare una strada nuova e riprendere ad occuparsi della sua vita e dei propri figli; tutt’altro, fa di lui/lei una caricatura del “separato/a" che andrà a giro a raccontare per sempre la sua dolorosa storia.
Il “perché" che invece assale chi la separazione la promuove o la agisce, è un dubbio che costringe ad una revisione della propria storia coniugale , spesso conseguente ad un evento non previsto (la conoscenza con qualcuno, una malattia, il procedere verso la vecchiaia , una modificazione dello status sociale, professionale, economico): e in questa revisione immancabilmente si vede tutto nero, tutto brutto e anche il bello viene spesso descritto come “infatuazione “ giovanile o cose del genere. Bianco e nero. Ed i perché qui attengono. Niente o quasi viene salvato del precedente rapporto; tutto era brutto, mentre se si separasse tutto sarebbe molto difficile ma molto bello. Bianco e nero. Inferno e paradiso.
Ed i perché qui attengono alla scelta (Perché mi sono sposato? Perché ho sposato quest’uomo / questa donna? perché non posso separarmi? Perché non posso rompere il patto? Perché dovrei stare tutto il resto della mia vita con questo/a qui?).
Chi si trovasse ad opporsi rigidamente, sarebbe preso per uno che non può capire. Chi accondiscendesse in tutto non farebbe altro che la parte di Lucignolo nei confronti di un Pinocchio che non riesce a vedere il suo naso bizzarro.
Quello cioè che succede è che facendo di ogni erba un fascio, la persona che sente la crisi coniugale impedisce a sé e all’altro/a di capire cosa sia successo, cosa ci sia che non va o che non è andato, quali siano stati gli errori fatti oppure quali parti della propria o altrui personalità sono talmente cambiati da non essere più complementari con l’altro/a.
Chi si ritrova poi ad agire la separazione subisce gli attacchi del mondo circostante che incomincia a schierarsi da una parte o dall’altra. In primis vive il senso di colpa proprio di colui che ha osato distruggere “il sacro”, toccare l’intoccabile, alzare il velo di ciò che dovrebbe stare coperto per sempre. Su questo senso di colpa agisce, invero, la propria storia personale ad incidere più o meno, ma è comune il senso di aver osato fare qualcosa che non andava fatto: e non è solo la matrice cattolica ad avere il sopravvento, bensì qualcosa di più atavico, quasi “biologico”, che rimanda ad una sorta di imprinting sulla forma di famiglia, al di fuori della quale, non ci sarebbe salvezza.
Chi, intorno ai due, sente l’offesa arrecata al totem sacro, si accanirà contro chi si separa, cercando di opporsi alla caduta del totem, cercando di attaccare fuori di sé qualcosa che forse, a volte, sta reprimendo dentro di sé: è una constatazione comune accorgersi che c’è chi si dispera di più nella cerchia della conoscenza della coppia che si separa, soffra tremendamente di ciò che sta proiettando di sé su quell’evento, sia in termini di timore che in termini di repressione.
L’altro vissuto è quello della “cacciata dal paradiso”, in un isolamento in parte decretato in termini difensivi dalla collettività, in parte per nascondersi e curarsi il proprio senso di colpa.
A tutto questo non possiamo non aggiungere il disagio economico conseguente. In questa società opulenta non è facile sopravvivere senza unire le forze : abbiamo tutto e non ne possiamo più fare a meno e rischiamo poi di non sopravvivere al modello di vita che abbiamo costruito : e poi come cedere al desiderio di chi vorrebbe vederlo sconfitto dal suo stesso errore (la separazione) oppure dimostrare nei fatti di non riuscire a fare senza l’altro/a : economicamente una separazione è pesante soprattutto per chi si separa se travolto dal senso di colpa, ma in genere per entrambi , ed è un’aggravante al disagio in sé.
Per entrambi il “perché” inespresso o comunque detto ma non comunicato intenzionalmente, finisce per oscurare la consapevolezza ed accompagnare lui o lei verso delle relazioni che spesso sono delle fotocopie delle precedenti o altrettanto insoddisfacenti, con l’unico risultato di un altrettanto disperante legame.
L’impossibilità di riconoscere e riconoscere all’altro ciò che si è preso e ciò che si è dato in una relazione, impedisce di crescere ed evolvere, e quindi di chiudere un capitolo e di aprirne un altro. In fondo, non riconoscere all’altro/a neanche la possibilità della sofferenza, della rabbia, del lutto necessari, vuol dire non riconoscere l’altro e impedire di fatto il distacco o la separazione.
Come uscire allora dal vortice dei “perché”?
Ci sono varie tipologie di intervento e diversi strumenti:
- la terapia individuale;
- l’uso delle immagini e la restituzione dell’intreccio;
- la Mediazione familiare, con la ricostruzione dell’intreccio;
- la psicoterapia familiare..
Mi piacerebbe ricevere un tuo feedback sull'articolo, saper se ti ha interessato e se vuoi maggiori chiarimenti possiamo parlarne. Se poi vuoi intraprendere un percorso di elaborazione del lutto, dobvuto al divorzio, possiamo farlo; basta una tua richiesta e puoi effettuare un percorso di Counseling o di Coaching. A presto! Un caro saluto
Articolo del: