Il regime IVA sulla raccolta dei tartufi
Chi trova un tartufo, si sa, trova un tesoro. Ma come la mettiamo con il Fisco?

Chi trova un tartufo, si sa, trova un tesoro. Il preziosissimo tubero, amato dai palati più fini ed esigenti, ha un costo che non è affatto peregrino paragonare a quello di un metallo prezioso, e trovarne uno nei boschi dietro casa oppure inerpicandosi nei pendii più impervi è quasi come trovare una pepita d’oro.
Ma come la mettiamo con il Fisco? Se un tempo non esistevano norme in materia e dunque occorreva applicare le regole più generali, è dal 2005 che sussiste una normativa IVA specifica.
Precisiamo che la norma riguarda i raccoglitori occasionali: per coloro che fanno della ricerca del tartufo (e magari della sua coltivazione) un’attività continuativa è ovvio che occorre aprirsi una partita IVA e comportarsi di conseguenza. Ma che succede a chi trova un tartufo in forma casuale o comunque dilettantesca?
Finché sceglie di consumarlo a casa propria, nulla di particolare. Ma se invece intende rivenderlo ad un commerciante il discorso si complica... ma solo per il commerciante! La legge prevede infatti che costui emetta un’autofattura: deve cioè redigere un documento simile ad una normale fattura, ma in cui il commerciante che la compila risulta il cessionario e non il cedente. Non solo: il cedente resterà del tutto anonimo, poiché - in deroga alle regole ordinarie - nell’autofattura non deve apparire alcun dato anagrafico del nostro raccoglitore dilettante.
Ipotizziamo ora che il prezzo di vendita sia pari a cento euro: nell’autofattura il cessionario dovrà aggiungere il 22% di IVA, che dovrà versare di tasca propria all’Erario. In pratica, il commerciante pagherà in tutto 122 euro: 100 che darà al raccoglitore e 22 che darà allo Stato. E, al contrario di quanto avverrebbe normalmente, l’IVA in questione è totalmente indetraibile: il commerciante dovrà dunque rassegnarsi a pagarla di tasca propria senza possibilità di recuperarla.
Quanto al raccoglitore, egli non ha obblighi contabili di nessun genere. Ai fini dell’imposta sul reddito, peraltro, egli sarebbe tenuto a dichiarare l’importo incassato nella categoria dei "redditi diversi" (sottocategoria: attività commerciali svolte in forma occasionale). Ma il totale anonimato garantito all’operazione fa sì che questa sia più una chimera che una possibilità reale. Peraltro, il raccoglitore onesto che volesse dichiarare questi incassi potrebbe dedurre dal reddito le eventuali spese sostenute per questa sua attività occasionale, posto che tali spese siano regolarmente documentate da fattura e sia possibile dimostrare l’inerenza con i ricavi dichiarati.
Rimane infine da segnalare come la norma in questione sia, con tutta probabilità, contraria alle norme comunitarie e sia quindi destinata ad essere cassata prima o poi dalla Corte di Giustizia: sia perché l’indetraibilità dell’IVA posta a carico del cessionario non trova alcun appiglio normativo, sia soprattutto perché nessuna operazione compiuta da chi non esercita un’attività di impresa dovrebbe rientrare nel campo di applicazione dell’imposta.
Ma come la mettiamo con il Fisco? Se un tempo non esistevano norme in materia e dunque occorreva applicare le regole più generali, è dal 2005 che sussiste una normativa IVA specifica.
Precisiamo che la norma riguarda i raccoglitori occasionali: per coloro che fanno della ricerca del tartufo (e magari della sua coltivazione) un’attività continuativa è ovvio che occorre aprirsi una partita IVA e comportarsi di conseguenza. Ma che succede a chi trova un tartufo in forma casuale o comunque dilettantesca?
Finché sceglie di consumarlo a casa propria, nulla di particolare. Ma se invece intende rivenderlo ad un commerciante il discorso si complica... ma solo per il commerciante! La legge prevede infatti che costui emetta un’autofattura: deve cioè redigere un documento simile ad una normale fattura, ma in cui il commerciante che la compila risulta il cessionario e non il cedente. Non solo: il cedente resterà del tutto anonimo, poiché - in deroga alle regole ordinarie - nell’autofattura non deve apparire alcun dato anagrafico del nostro raccoglitore dilettante.
Ipotizziamo ora che il prezzo di vendita sia pari a cento euro: nell’autofattura il cessionario dovrà aggiungere il 22% di IVA, che dovrà versare di tasca propria all’Erario. In pratica, il commerciante pagherà in tutto 122 euro: 100 che darà al raccoglitore e 22 che darà allo Stato. E, al contrario di quanto avverrebbe normalmente, l’IVA in questione è totalmente indetraibile: il commerciante dovrà dunque rassegnarsi a pagarla di tasca propria senza possibilità di recuperarla.
Quanto al raccoglitore, egli non ha obblighi contabili di nessun genere. Ai fini dell’imposta sul reddito, peraltro, egli sarebbe tenuto a dichiarare l’importo incassato nella categoria dei "redditi diversi" (sottocategoria: attività commerciali svolte in forma occasionale). Ma il totale anonimato garantito all’operazione fa sì che questa sia più una chimera che una possibilità reale. Peraltro, il raccoglitore onesto che volesse dichiarare questi incassi potrebbe dedurre dal reddito le eventuali spese sostenute per questa sua attività occasionale, posto che tali spese siano regolarmente documentate da fattura e sia possibile dimostrare l’inerenza con i ricavi dichiarati.
Rimane infine da segnalare come la norma in questione sia, con tutta probabilità, contraria alle norme comunitarie e sia quindi destinata ad essere cassata prima o poi dalla Corte di Giustizia: sia perché l’indetraibilità dell’IVA posta a carico del cessionario non trova alcun appiglio normativo, sia soprattutto perché nessuna operazione compiuta da chi non esercita un’attività di impresa dovrebbe rientrare nel campo di applicazione dell’imposta.
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