L'umiltà rende il leader empatico e in relazione profonda con il suo team

Troppo facile al giorno d’oggi dire Leadership. Buona parte (non tutti) dei manager con cui mi trovo a lavorare lamenta spesso uno scarso rapporto di relazione con il proprio superiore indicando quale ostacolo principale una sorta di cecità dettata da un approccio troppo intriso di egocentrismo.
Perché buona parte dei leader con cui si ha a che fare hanno un ego smisurato?
Sembrerebbe che i leader più alti salgono in classifica, più sono a rischio di ottenere un ego gonfiato. E più grande cresce il loro ego, più sono a rischio di finire in una bolla isolata, perdendo il contatto con i loro colleghi, la cultura e, in definitiva, i loro clienti.
Man mano che saliamo in classifica, acquisiamo più potere. E con ciò, è più probabile che le persone vogliano farci piacere ascoltando più attentamente, accettando di più e ridendo delle nostre battute. Tutti questi solleticano l'ego. E quando l'ego è solleticato, cresce.
David Owen, ex ministro degli Esteri britannico e neurologo, e Jonathan Davidson, professore di psichiatria e scienze comportamentali alla Duke University, chiamano questa "sindrome di hubris", che definiscono un "disturbo del possesso del potere, in particolare del potere che è stato associato a un successo travolgente, tenuto per un periodo di anni".
Quando siamo presi dalla morsa della brama dell'ego di avere più potere, perdiamo il controllo. L'ego ci rende sensibili alla manipolazione, ci rende prevedibili.
Un ego gonfiato corrompe anche il nostro comportamento. Quando crediamo di essere i soli architetti del nostro successo, tendiamo a essere più rudi, più egoisti e più propensi a interrompere gli altri.
Alla fine, un ego gonfiato restringe la nostra visione. L'ego cerca sempre informazioni che confermino ciò in cui vuole credere.
Per fortuna una ricerca sull’umiltà quale competenza fondante della leadership ci dice qualcosa di diverso.
Una pubblicazione scientifica degli autori Bradley P. Owens, Michael D. Johnson, Terence R. Mitchell: “Expressed Humility in Organizations: Implications for Performance, Teams, and Leadership” del 2013, di 25 pagine, riesce a fare un doppio salto mortale.
Prima di tutto definisce in termini scientifici la cosiddetta “Expressed Umility”, ovvero
una caratteristica interpersonale […] che consiste in:
a) una manifesta volontà di vedere se stesso accuratamente;
b) una dimostrata capacità di apprezzare i contributi e i punti di forza degli altri;
c) apertura ad imparare e ricevere feedback dagli altri.
Poi spiega come questo tipo di umiltà influenzi i team coinvolti, e con quali effetti benefici per le aziende coinvolte, fino ad arrivare a dei preziosissimi suggerimenti.
Per poter coinvolgere al meglio i propri collaboratori è consigliabile un approccio:
a) meno “carismatico”, più “calmo”;
b) che privilegi l’ascolto attivo;
c) che ammetta, in modo trasparente, i propri limiti;
d) che apprezzi i contributi di tutti i colleghi coinvolti.
Il carisma è un limite
Insomma, in questa nuova forma di leader, l’antitesi del leader carismatico viene messo da parte il proprio ego a favore di una sorta di umile vulnerabilità considerata come fattore di successo. Questo punto è fondamentale e “controculturale”.
Generalmente si tende a credere che per trasformare una azienda da buona a eccellente ci sia il bisogno di grandi leader carismatici, che fanno notizia e che diventano celebrità. Paradossalmente, una leadership aziendale carismatica, sostenuta cioè da un forte ego, permette ad una azienda di diventare buona ma non gli concede l’opportunità di diventare grande.
Il ruolo chiave dell’umiltà
Ma c’è di più: secondo Bill Taylor, co-founder del web magazine Fast Company, i leader evitano di mostrarsi umili per non apparire deboli e vulnerabili quando le risorse sotto il loro controllo hanno bisogno di risposte e di essere rassicurate.
Così facendo, però, perdono, incredibilmente, un punto di forza: i migliori leader non fingono di avere tutte le risposte tra le mani, ma sanno comprendere che è fondamentale assimilare idee e competenze da chi ne sa di più. Perché ci sarà sempre qualcuno di più preparato su un argomento specifico, e affidarsi alle skill altrui non significa sentirsi “inferiori”: bisogna imparare a chiedere, piuttosto che parlare senza conoscere a fondo. Riconoscere i meriti dei collaboratori, in più, può diventare per i leader illuminati una spinta alla crescita, stimolando il professionista all’apprendimento per arricchire le proprie competenze e alzare l’asticella della preparazione.
Essere modesti, inoltre, rende il leader empatico e in relazione profonda con il suo team: di fronte ad un manager umile – quando serve – le risorse si sentono meno in soggezione e sono più propense a seguire le direttive del leader, che perde l’immagine da boss e acquisisce quella di guida.
Adottare un atteggiamento modesto “a comando” non è però la scelta giusta. Dietro ad un approccio discreto e morbido, capace di ascoltare e di affidarsi a chi è più capace o ferrato in un determinato campo, si nascondono forza ed energia.
Solo un leader estremamente fiducioso in sé stesso può sostenere l’ansia di lasciare il timone ad altri e solo un manager attento può accettare di non avere tutte le risposte.
Il coraggio di chiedere scusa.
Un importante segnale della presenza dell’umiltà in un leader lo rileviamo con la sua capacità di dire “scusa” e “perdonami”.
Purtroppo ci sono dei conflitti che non si sanano perché ciascuno è convinto di essere dalla parte della ragione e così attende che sia l’altro a chiedergli scusa. Ma pronunciare questi “scusa” e “perdonami” (cosa particolarmente difficile), è molto prezioso, specialmente nei rapporti gerarchici.
È difficile dire con umiltà “scusa” a un nostro “capo”. Molto più semplice è non dire nulla, o dirlo per paura o per opportunismo.
Ma è ancora più difficile per un “capo” chiedere scusa a un proprio collaboratore e sono queste parole che creano spirito di solidarietà e persino di fraternità.
Un “grazie” e uno “scusa” sinceri e umili detti da un leader (manager o capo che sia) generano più spirito di gruppo di cento corsi di “team building”.
Nessun regolamento dell’impresa e nessuna certificazione etica glielo chiede. Ma poche parole come un “perdonami” detto da un leader a un lavoratore della sua azienda dà qualità etica e umana all’intero gruppo di lavoro.
Per un leader l’umiltà è fondamentale per vivere e resistere durante le grandi prove, rialzarsi dopo un fallimento, raggiunge l’eccellenza.
Il leader umile è sempre grato. I suoi preziosi “grazie”, nascono dalla consapevolezza della bellezza e della bontà di chi gli vive accanto.
Essere umile non vuol dire avere angoscia o timore. Non ha niente a che fare con il vivere sotto tono, con il piegare il capo, con il comportarsi da zerbino.
Un buon leader parte da se stesso, si sforza di capire bene i propri limiti, comprende a fondo il proprio comportamento nelle relazioni con gli altri e valuta al meglio la visione d’insieme di qualsiasi problema: in questo modo ogni sua decisione è presa in modo relazionale e non gerarchico, razionale e non istintivo.
Insomma, non abbiamo bisogno di leader carismatici: quelli servono soltanto a loro stessi.
In tal senso è troppo facile dire leadership e come ci ricorda Bernardo di Chiaravalle, monaco cristiano fondatore della celebre abbazia di Clairvaux in Francia: “chi si fa maestro di se stesso si fa discepolo di uno stolto”.
Articolo del: