Non basta la presenza al rogito per escludere i beni dalla comunione
Come noto la comunione legale tra i coniugi si configura come un regime patrimoniale di comunione degli acquisti, operante sulla base di un automatismo mediante il quale l’acquisto effettuato da uno dei due coniugi produce effetti anche nella sfera giuridica dell’altro coniuge, salvo che non ricorra una causa di esclusione di tale effetto così come individuata dall’art. 179 che, nel primo comma, del codice civile il quale presenta un'elencazione tassativa dei beni che non cadono in comunione e, nel secondo comma, precisa come l’acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'articolo 2683, effettuato dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, in quanto beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori ovvero beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione o, ancora, beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto, sempre che tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.
Quindi il generico riconoscimento, pur concorde tra i coniugi, della natura personale di un bene oggetto di un atto di acquisto successivo al matrimonio, non è sufficiente, se pur necessario, ad escludere il bene stesso dalla comunione occorrendo altresì che il bene rientri in una delle categorie individuate dalla norma citata.
Lo ha recentissimamente ribadito la Corte di Cassazione nell’ordinanza del 16 dicembre 2021, n. 40423, chiamata a pronunciarsi su un caso relativo ad un fondo e ad un fabbricato edificato sul medesimo, acquistati da uno dei coniugi il quale negava che questi potessero essere caduti in comunione sull’assunto dell’asserita «natura ricognitiva e confessoria della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in sede di stipula degli atti di acquisto e per non aver rilevato la totale assenza di revoca della detta dichiarazione, che assumeva, nella specie, valore di confessione stragiudiziale ex art. 2732 c.c.».
Dal canto suo l’altro coniuge, ritenendo che i suddetti beni, acquistati dal primo, costituissero oggetto di comunione legale, chiedeva al tribunale di dichiararlo chiedendo altresì di ordinare al Conservatore dei RR.II. competente la trascrizione anche a suo favore della proprietà degli stessi, ovvero, in subordine, di condannare il convenuto al rimborso della metà del prezzo pagato per l'acquisto, nonché della metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati per la realizzazione dell'immobile.
L’istante sosteneva che, «quand'anche fosse intervenuta nei citati atti di compravendita, ratificando la dichiarazione del marito di acquistare con denaro proprio, detta dichiarazione non avrebbe potuto avere valore confessorio dell'esistenza dei presupposti di fatto richiesti dall'art. 179 c.c., comma 1, lett. f), non avendo il coniuge acquirente espressamente specificato che gli immobili erano stati acquistati con denaro proveniente dal prezzo del trasferimento di beni personali, sicché gli stessi dovevano considerarsi di proprietà comune».
Detta tesi risultava e risulta confermata sia in sede di merito che di legittimità.
Come ricordato in sede di giudizio di merito «il regime della comunione legale dei beni, in considerazione della sua funzione pubblicistica, non è "modificabile ad nutum dal singolo coniuge, secondo l'opzione estemporanea di ciascuno di essi in relazione all'acquisto dei singoli beni» e l'esclusione dei beni dalla comunione legale non può pertanto avvenire sic et simpliciter dalla dichiarazione del coniuge eventualmente intervenuta negli atti di compravendita: affinché il bene, acquistato durante il matrimonio dai coniugi in regime di comunione legale dei beni, possa ritenersi di natura personale, «è necessario, da una parte, che, nell'atto di compravendita, il coniuge acquirente, ai sensi dell'art. 179 c.c., comma 1, lett. f), dichiari espressamente che l'immobile è acquistato con il prezzo del trasferimento di beni personali o col loro scambio e, dall'altra, che il coniuge non acquirente riconosca il presupposto di fatto già esistente (la provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto)».
Nel caso poi deciso in via definitiva dall'ordinanza citata della Corte di Cassazione il coniuge che si opponeva a che i beni acquistati fossero rientrati a far parte della comunione «non aveva provato che il prezzo degli immobili per cui era causa fosse stato pagato con denaro derivante dalla vendita di beni personali, ex art. 179 c.c., avendo egli semplicemente affermato che il suddetto acquisto era stato effettuato con i profitti dell'impresa costituita dopo il matrimonio» inoltre «negli atti di acquisto in questione vi era solo un generico riferimento all'art. 179 c.c., e non era, invece, presente il richiamo specifico alle lettere c), d) ed f) dell'art. 179 c.c., o meglio l'indicazione analitica della provenienza delle risorse utilizzate per l'acquisto degli immobili».
I coniugi in regime di comunione legale i quali compaiano dinanzi al notaio per effettuare una dichiarazione circa la natura personale del bene operano sì una ricognizione ma di quanto previsto dalla legge, ricognizione che ha valore solo nella misura in cui essa riporti nel suo carattere analitico il contenuto fatto proprio dalla tassativa elencazione di cui all’art 179 del codice civile, restando irrilevante l’astratta volontà del coniuge di attribuire con la propria dichiarazione una qualificazione ai beni oggetto della compravendita.
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