Il Tribunale di Milano e l'interpretazione costituzionalmente orientata del giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale
La relazione tra diritto al lavoro e libertà di iniziativa economica, anche quando questa implichi il licenziamento, per ragioni legate a condizioni di difficoltà economica o di incremento della produttività, è regolata dall’art. 3 della legge L. 15/07/1966, n. 604, Norme sui licenziamenti individuali, ove è previsto il licenziamento per «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». La giurisprudenza di legittimità ha espresso, anche di recente, un duplice orientamento, da un lato, derivando la legittimità del licenziamento non da «un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo- organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale»[Cass. Civ., Sez. Lav., 16 marzo 2015, n. 5173]; dall’altro, al contrario, stabilendo che «l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa" (Cass. Civ., Sez. Lav., 7 dicembre 2016, n. 25201)» e che il contratto di lavoro possa essere sciolto quando il datore di lavoro «ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive" (Cass. Civ., Sez. Lav., 21 novembre 2015, n. 23620)». A mantenere vivo l’interesse per un tema di grande delicatezza, non solo sotto il profilo sociale ma anche rispetto all’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente in questo settore, contribuisce oggi il caso del licenziamento di un dipendente, capo contabile in una Società a Responsabilità limitata con sede a Milano, il quale lamentava l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo, stante l'intento della società di aumentare semplicemente i profitti. Aderendo al secondo degli orientamenti segnalati, il Tribunale di Milano [Ordinanza 15 giugno 2017, n. 16245] rigetta il ricorso avverso il licenziamento motivando che quella di aumentare il profitto «rappresenta una legittima facoltà del datore di lavoro. Tanto premesso, occorre ricordare come entrambi gli indirizzi giurisprudenziali innanzi richiamati concordino sul fatto che il "motivo addotto dall’imprenditore deve essere oggettivamente verificabile ossia non pretestuoso, con onere della prova a carico dell’imprenditore stesso" (Cass. Civ., Sez. Lav., 21 novembre 2015, n. 23620)». E questo costituisce effettivamente il punto qualificante di ogni licenziamento ex art. 3 legge 604/1966 ossia verificare che il profitto dell’azienda non si identifichi con il licenziamento stesso, ma sia la conseguenza di una riorganizzazione che a quella crescita di profitti sia indirizzata nel quadro di un generale miglioramento delle condizioni organizzative aziendali con contestuale aumento di produttività. Diversamente avremmo non soltanto una sostanziale discrezionalità ad nutum del datore di lavoro tale da alterare il naturale sinallagma contrattuale, ossia la corrispettività delle prestazioni poste a contenuto delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro per entrambe le Parti ma, sopratutto, un’applicazione della legge tale da porre in conflitto il diritto costituzionale all'iniziativa economica con quello del diritto al lavoro.
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<br />nel quadro della giurisprudenza di merito e di legittimità
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