Le Azioni Revocatorie: tipologie e prescrizione


Esistono due tipi di revocatoria: quella ordinaria e quella fallimentare. Analogie e differenze
Le Azioni Revocatorie: tipologie e prescrizione

 

Esistono due tipi di revocatoria: quella ordinaria e quella fallimentare

L’art. 2901 c.c. regola la revocatoria ordinaria e riguarda il debitore che, con cessioni a favore di un terzo, diminuisca il suo patrimonio e, quindi, la possibilità di soddisfare il suo creditore.
Se debitore e terzo sono entrambi consapevoli del pregiudizio, o addirittura complici e partecipi nell’operazione dolosa, preordinata anche prima del sorgere del credito, il creditore può domandare che tutti questi atti vengano dichiarati inefficaci.
La revocatoria fallimentare è regolata invece dagli articoli 64, 65, 67, 69 bis l.f. e vi è legittimato il curatore fallimentare per ricostituire il patrimonio del fallito, quando sia stato diminuito con atti antecedenti la dichiarazione di fallimento.
Le differenze tra le due azioni derivano dall’esser, quella ordinaria, preordinata all’esecuzione e, quindi, a tutela del singolo creditore, mentre quella fallimentare è preordinata alla par condicio creditorum ed è a tutela di tutti i creditori.
La revocatoria fallimentare ha un regime, in alcuni punti fondamentali, regolato soltanto dalla giurisprudenza, che, per analogia, ha richiamato gli art. 2901 e seguenti, fissati, come s’è detto, per l’ordinaria.
Le due azioni, infatti, pur diverse, sono tuttavia analoghe per il fatto di consistere nell’attuazione di un diritto potestativo che interviene sul patrimonio e sugli atti del debitore e di terzi per via giudiziale senza bisogno della loro cooperazione.

A complicare ulteriormente una situazione, già abbastanza complicata, c’è poi anche una revocazione ordinaria, ma di competenza del curatore fallimentare.
E’ prevista dall’articolo 66 l.f. e, come per quella ex art. 2901 l.f., ha, come condizione, il fatto che il debitore abbia compiuto atti in pregiudizio dei creditori.
La revocatoria ordinaria del curatore, a differenza di quella strettamente fallimentare, che pure è di competenza esclusiva dello stesso, non richiede l’insolvenza del debitore, né la conoscenza, da parte del creditore, dello stato di decozione di questi.
Il curatore, ex art. 66 l.f., deve solo dimostrare il pregiudizio per la massa dei creditori, della disposizione del debitore (Cass. n. 9170/2015).
Non è neppure necessario che l’atto del debitore abbia provocato un danno rilevante e certo: è sufficiente che abbia reso più incerta la possibilità di soddisfazione per tutti i creditori.
Tuttavia la revocatoria ordinaria del curatore fallimentare si differenzia da quella esercitata ex art. 2901 e seg. c.c. perché l’azione è a giovamento di tutti i creditori del fallito (e non solo di coloro che propongono l'azione ex art. 2901 c.c., quando esperita al di fuori del fallimento).
Occorre poi distinguere se l’azione sia iniziata ex novo dal curatore o se questi vi subentri ex art. 66 l.f., accettando la causa nello stato in cui si trova. In tal caso il creditore procedente va estromesso a pena di improcedibilità (Cass. 8984/2011; Cass. 29420/2008).
E’ però, in ogni caso, di un’azione particolarmente onerosa dal punto di vista probatoria per il fallimento ed è quindi residuale rispetto alla revocatoria fallimentare vera e propria.

Con la revocatoria fallimentare in senso stretto può esser dichiarata l’inefficacia di atti di disposizione compiuti dal debitore, salvo prova da parte del creditore, che se ne è avvantaggiato, di non conoscere lo stato di insolvenza del debitore.

 

La prescrizione ed esercizio dell'azione revocatoria

La revocatoria ordinaria si prescrive in cinque anni ex art. 2903 c.c., e nel caso della revocatoria ordinaria ex art. 66 l. f., va ricordato che l’interruzione della prescrizione da parte di un creditore cui il curatore sia subentrato giova a tutta la massa fallimentare.
Per la revocatoria fallimentare la questione è più complicata: gli atti a titolo gratuito ex art. 64 l.f. e i pagamenti ex art. 65 l.f. dei crediti scadenti nel giorno del fallimento o dopo, purché entrambi eseguiti nei due anni anteriori alla dichiarazione del fallimento, non hanno prescrizione perché considerati inefficaci e revocati ope legis.
Gli atti gratuiti, compiuti nei due anni antecedenti il fallimento, sono dunque inefficaci ope legis. Però sono esclusi gli atti compiuti in adempimento di obblighi morali, di pubblica utilità, di regali d’uso se siano proporzionati con il patrimonio del fallito. Lo stesso vale per il pagamento dei crediti scadenti nel giorno del fallimento o successivamente se eseguiti nei due anni precedenti. L’azione in tali casi non è soggetta a prescrizione (Cass. 20067/2011).
Invece, gli atti a titolo oneroso hanno complessa regolamentazione ex art. 67, che consente a certe condizioni, la revocazione ed, in tal caso sono soggetti a prescrizione quinquennale. Le prescrizioni possono essere interrotte solo dall’azione giudiziaria, essendo preclusa per l’esercizio dei diritti potestativi la messa in mora, compatibile solo per le obbligazioni creditizie.
Tale orientamento ha innovato al precedente, che consentiva l’interruzione anche con la semplice messa in mora, quanto meno dal 1995 (Cass. n. 481/1995) e finora si è mantenuto costante.

Ma da quando comincia a decorrere la prescrizione? Dal compimento dell’atto, come recita l’art. 2903, anche se a quel tempo il credito che deve esser cautelato non sia ancora sorto (Trib. Napoli, 27 marzo 2014 con riferimento ad art. 2901 c.c., co. 1, nn. 1,2)? Si tratterebbe quindi di un’eccezione al principio stabilito dall’art. 2935 c.c.?
Diversamente ha stabilito la giurisprudenza successiva della Cassazione ritenendo che il termine deve intendersi, per quanto riguarda la revocazione ordinaria, non dalla stipula dell’atto, ma dal giorno in cui dell'atto è stata data pubblicità ai terzi. Ciò con espresso richiamo all’art. 2935 c.c., per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e solo da allora l'inerzia del titolare protratta nel tempo assume effetto estintivo. Perciò, nei casi in cui la legge preveda la pubblicità con iscrizione nei registri immobiliari, la decorrenza è dal giorno dall’annotazione (Cass. Ordinanza 5889/2016).

Tale indirizzo giurisprudenziale non ha spento una diversa opinione di parte della dottrina. E’ il caso, per citare un nome, di Giuseppe Ragusa Maggiore e di quanti invece ritengono che il termine iniziale di decorso debba computarsi dalla data dell’atto revocando.
Altrimenti si finisce per dare, di fatto, alla revocatoria fallimentare un tempo di prescrizione più lungo di quello che ha la revocatoria ordinaria, con violazione del procedimento di analogia.
In caso invece di azione ex novo in tema di amministrazione straordinaria la decorrenza (sempre con richiamo all’art. 2935) si avrà dal decreto di apertura della procedura e nomina del commissario (Cass. Sent. 17200/2014).
Il risultato di tale soluzione è che il ricorso all’analogia è soltanto parziale, essendo limitato al trarre dal codice civile solo la durata quinquennale della prescrizione.

Un problema particolare sorge nella procedura di amministrazione straordinaria ex d.lgs. n. 270/1999 (legge Prodi-bis). Si tratta come è noto di una procedura di recupero di aziende gravemente insolventi con almeno 200 dipendenti. L’ammissione alla procedura avviene dopo un periodo di osservazione al termine del quale si decide per il programma di risanamento o per il fallimento.
Anche qui è possibile l’azione revocatoria, purché il programma lo consenta (in caso di cessione, ma non di ristrutturazione: art. 49 del D.lgs. 270/1999). Perciò il termine a quo di decorrenza della prescrizione non può esser dato dalla data che dispone l’apertura della procedura e la nomina del commissario, come avveniva nella precedente legge Prodi (l. n. 95/1979), ma bensì dall’autorizzazione del piano di cessione.
In tal caso la citazione in giudizio raggiunge il suo scopo di interruzione della prescrizione anche se l’atto, consegnato tempestivamente al notificatore, sia pervenuta oltre il termine quinquennale.
Non si verifica qui la scissione degli effetti della notificazione per il notificante ed il destinatario per il fatto che il diritto non può esser fatto valere se non con atto processuale (Cass. SS.U. 24822/2015; Cass. 21516/2017).

Per gli atti a titolo oneroso l’art. 67 l.f. comma 1 prevede azione revocatoria fallimentare (salvo prova contraria di non conoscenza dello stato di insolvenza) per quanto compiuto nell’anno o nei sei mesi antecedenti il fallimento e relativi ad atti in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso;
- atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento;
- pegni, anticresi e ipoteche volontarie costituiti per debiti preesistenti non scaduti;
- nonché, pegni, anticresi e ipoteche giudiziali o volontarie costituiti per debiti scaduti.

Viceversa sempre l’art. 67, ma al comma 2, prevede la revoca dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento. Qui però la prova è posta a carico del curatore e consiste nella conoscenza del creditore dello stato di insolvenza del debitore.
Questa prova, evidentemente non sempre agevole, può esser fornita anche mediante indizi concordanti il cui esame va tuttavia compiuto per gradi di accertamento (Cass. 26061/2017): 1) valutazione analitica di ciascun elemento indiziario; 2) successiva valutazione complessiva di tutti gli elementi per accertarne la concordanza e se la loro combinazione possa fornire quella prova presuntiva non raggiunta dall’esame dei singoli elementi.
Peraltro alcuni atti sono comunque sottratti alla revocatoria fallimentare per disposto dell’art. 67 l.f. cui si rimanda.

Notevole incertezza giurisprudenziale è durata circa il termine in cui entrambe le revocatorie debbano essere esercitate.
L’art. 69 l.f. ne prevede l’esercizio entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento e non oltre i cinque dal compimento dell’atto a pena di decadenza. Ma ciò vale per entrambe le revocatorie o solo per quella fallimentare in senso stretto?
E’ stato ritenuto che la decadenza ex art. 69bis l.f. non sarebbe applicabile all’azione ex art. 66 l.f. (Cass. 8680/2017, ma in contrasto con giurisprudenza di merito: v. ad esempio: Trib. Napoli 27 marzo 2014).
Successivamente però (appena due giorni dopo) si sono pronunciate le sezioni unite con diverso orientamento: anche alla revocatoria ordinaria ex art. 66 si applica il termine triennale di decadenza (Cass. S.U. 10233/2017).

 

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di pietro bognetti

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