Licenziamento per giustificato motivo oggettivo


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage: la Corte di Cassazione ribalta l'orientamento consolidato
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Un rapporto di lavoro a tempo indeterminato può essere interrotto dal datore di lavoro (licenziamento) in presenza di giusta causa o di giustificato motivo.

Il giustificato motivo legittima il licenziamento con preavviso, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, e si suddivide in soggettivo, consistente in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, e oggettivo, che consiste invece in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

I profili di maggiore interesse pratico hanno riguardato i poteri del giudice e gli oneri della prova di datore di lavoro e lavoratore.

L’art. 30 della legge n. 183/2010 sancisce a livello normativo un principio che già da tempo veniva applicato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Secondo tale norma il giudice non può sindacare le scelte economico-organizzative del datore di lavoro, ma deve solamente controllare che tali scelte siano effettive e collegate causalmente con il licenziamento. Il datore di lavoro dovrà solo provare la reale soppressione del posto di lavoro ed il giudice non potrà entrare nel merito delle scelte (ad esempio accorpamento delle mansioni, appalto a terzi di un servizio, ecc.). Per la giurisprudenza maggioritaria quindi sono irrilevanti i motivi posti alla base del licenziamento. Alcune sentenze tuttavia, in contrasto con l’orientamento maggioritario, hanno affermato che nel caso in cui il licenziamento sia motivato con l’incremento dei profitti, e non diretto a contrastare situazioni sfavorevoli del mercato, esso sia ingiustificato.

All’interno di tale quadro che, a parte qualche sporadica pronuncia contraria, manifestava un orientamento rimasto immutato nel corso degli anni, è intervenuta una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n. 24803 del 2016, che ha affermato essere onere del giudice <>. Secondo tale sentenza, che si è pronunciata sul caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un impiegato amministrativo all’interno di un reparto di fisiokinesiterapia, (reparto peraltro chiuso) il giudice ha l’obbligo di verificare, anche tramite l’audizione di testimoni, l’effettiva sussistenza delle motivazioni addotte dal datore di lavoro. Tali motivazioni, secondo quanto asserito dalla Corte, devono essere coerenti con ragioni effettive e convincenti, comprovate o comprovabili.

Secondo l'impostazione tradizionale della giurisprudenza, in capo al datore di lavoro gravava anche l'onere di dimostrare l'inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni equivalenti (ai sensi dell'art. 5 della legge n. 604/1966, spetta al datore di lavoro infatti provare la sussistenza del giustificato motivo di licenziamento). Il lavoratore, invece, era tenuto solamente ad indicare la posizione disponibile (onere di allegazione) compatibile con il proprio bagaglio professionale. Peraltro, si ritenevano necessarie indicazioni specifiche (e non generiche) circa le mansioni e i ruoli disponibili nel complesso aziendale. A questo punto, in capo al datore, scattava l'ulteriore onere di provare la non utilizzabilità del lavoratore nelle posizioni dallo stesso indicate. E, visto il carattere negativo del fatto da provare, il datore di lavoro doveva necessariamente dimostrare il fatto positivo contrario, ossia la stabile occupazione dei posti residui e la mancata assunzione di nuovi lavoratori di pari qualifica per esigenze già esistenti o prevedibili al momento del licenziamento (la prassi giurisprudenziale ritiene necessario un intervallo di almeno otto mesi per la nuova assunzione).

Tale consolidata impostazione è stata recentemente confutata dalla sentenza n. 5592 del 22 marzo 2016 della Corte di Cassazione. Gli ermellini in tale sentenza, pur essendo consapevoli del precedente orientamento hanno affermato che <>. In tal modo secondo la Corte si invertirebbe senza fondamento l’onere della prova che l’art. 5 della legge n. 604/1966 pone evidentemente in capo al datore di lavoro. In base alla suddetta pronuncia invece <>. Spetta pertanto al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage. Peraltro, nella stessa sentenza si prende posizione in senso estensivo anche in merito alla questione circa il tema della comprensione o meno nell’obbligo di repechage anche delle mansioni inferiori, questione che ha sempre diviso la giurisprudenza e che tale recente pronuncia risolveva in senso positivo. La sentenza 5592/2016, vista la sua organicità e la sua chiarezza nel riportare gli orientamenti precedenti per poi confutarli, pareva potesse essere assunta come <>. Tuttavia, imprevedibilmente, la sentenza della Cassazione, sezione Lavoro, n. 9467 del 10 maggio 2016 ha riaffermato l’orientamento precedente senza nemmeno tenere in considerazione quanto poco prima statuito dalla Suprema Corte, sia in ordine all’onere della prova relativo al repechage , sia in ordine alla possibilità che lo stesso comprenda anche mansioni inferiori (precisando che si dovessero ricomprendere anche le mansioni inferiori, purché compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore).

Si attende ora, alla luce dell’evidente contrasto, che le Sezioni Unite assumano una posizione che chiarisca una volta per tutte tali dubbi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

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di Avvocato Alberto Loddo

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