Ma cosa sta succedendo alla cultura manageriale?


Il concetto di efficienza che si è diffuso negli ultimi decenni è davvero corretto? La meritocrazia, invocata da molti, è un concetto davvero chiaro?
Ma cosa sta succedendo alla cultura manageriale?
"La maggior parte dei dirigenti è convinta che un’esecuzione impeccabile - la produzione e distribuzione efficiente, tempestiva ed equilibrata di beni e servizi - sia un modo infallibile per conquistare la fedeltà dei clienti e conseguire ottimi risultati finanziari. Secondo questa linea di pensiero, un manager che molli la presa sull’esecuzione, sia pur temporaneamente, lo fa a proprio rischio e pericolo. In realtà, nell’economia della conoscenza, neppure l’esecuzione più ineccepibile è in grado di garantire un successo duraturo." (Amy C. Edmondson, Harvard Business Review, sett. 2008, nr. 9)
In molte aziende s'è sviluppata, negli ultimi vent’anni, una mentalità per la quale il manager deve reagire, reagire, reagire al bombardamento di comunicazioni ed emergenze che in un mondo ormai caotico lo circondano ogni giorno.
Per di più spesso quest'approccio è accompagnato da una crescente intolleranza verso l’errore, anche piccolo, verso la dimenticanza. Si è risucchiati in un vortice di agitazione che impedisce di pensare, in un continuo rincorrere l’emergenza e i piccoli dettagli, rimandando di continuo la pianificazione e la riflessione. La crescita abnorme delle ore lavorate per addetto ne è testimone. Così si è cominciato a chiamare "performance" ciò che non lo è, come l'agitarsi per 50 e più ore la settimana; si definisce "meritocrazia" il terrorismo verso l’errore umano. Si chiama "flessibilità" l’obbedienza assoluta e "rigidità" il comportamento di chi fa delle domande o esterna i propri dubbi.
Timoroso di sbagliare, l’impiegato non assume iniziative se prima non le ha sottoposte al suo capo, che spesso le inibisce per lo stesso motivo. A sua volta il manager, temendo che i suoi collaboratori non aggiustino le cose per tempo, tende a "prendere in mano la situazione", sostituendosi a loro, con il risultato di bloccarne la crescita e di trascurare il proprio ruolo.
Ci si disabitua ad aggiornarsi, a pensare a medio termine. Ci si concentra sul pompieraggio stabile e non sulla prevenzione degli incendi.
Si perseguono risultati di breve o brevissimo termine finendo col perdere di vista obiettivi strategici. Si confondono gli obiettivi di performance con quelli di risultato.
Druker scrisse, anni fa, a proposito della sua ideazione forse più nota, l’MBO: "l’MBO è solo un altro strumento. Non è la miglior cura per l’inefficienza manageriale (...). L’MBO funziona se si conoscono gli obiettivi, ma nel 90% dei casi non si conoscono". Ma guarda, il grande Druker che fa autocritica, dopo oltre trent’anni di MBO - e dopo non si sa quanti disastri perpetrati in suo nome.
In realtà il Management By Objectives, in sé e per sé, contiene un’idea sensata e semplice: incentivare le persone in base ai risultati che portano rispetto agli obiettivi. Facile a dirsi.
Il punto è che - come ammette a denti stretti lo stesso Druker - non si sa bene quali siano, gli obiettivi. L'MBO prescriverebbe che si potessero misurare. Peccato che spesso misurabili non siano - la soddisfazione della clientela per esempio. Ecco allora il ricorso ai famosi Key Performance Indicators, come il numero di lamentele o la quantità di squilli del telefono entro i quali bisogna assolutamente alzare la cornetta nel call center.
Ma c’è di più. Valutare e incentivare una persona in base all’MBO presuppone che il risultato dipenda da lei. Tuttavia oggi, quando tutti, più o meno, si lavora in équipe, è molto raro trovare un risultato che dipenda SOLO dalla performance di QUELLA specifica persona.
Del resto, la Direzione Generale va capita. Si deve occupare della politica del personale, non certo della valutazione di un singolo. Ciò non toglie che il problema rimane in mano al Capo Diretto del Collaboratore-da-valutare: "come lo posso motivare, dopo che gli avrò detto che, nonostante i suoi sforzi, anche quest’anno non vedrà l'incentivo, avendo mancato il target per il 2%?"
In realtà la questione, in questi termini, è mal posta. Nella grande maggioranza delle imprese in cui ho visto applicare l’MBO (o qualcosa di simile) esso riposa su due presupposti non espliciti, ma molto vincolanti. Il primo è che gli unici risultati che contano, sui quali si deve valutare e motivare, sono quelli misurabili; e di qui a considerare "risultati" solo quelli che hanno qualche significato direttamente economico, il passo è breve.
Il secondo è che l’azienda possa motivare le persone solo economicamente, per cui l’identificazione tra tangibilità e monetarizzazione è quasi automatica.
Ora, se si vive in un'azienda che per prima valorizza solo i risultati economicamente tangibili, è logico sviluppare una mentalità per la quale si ritiene che ogni merito debba essere monetizzato.
Non voglio sminuire l’importanza delle gratificazioni economiche. Ma ridurre la questione a un do-ut-des economico è pericoloso, più che semplicistico: il premio in denaro rischia di diventare fine a sé stesso, per cui se una persona lo ha ricevuto per anni (con merito), può percepirlo come un diritto; l’azienda che paga incentivi robusti può essere tentata di non adeguare le retribuzioni fisse al mercato, con il rischio di perdere le persone più valide appena i risultati vengono meno; se poi l’azienda è stata troppo ottimista nelle previsioni per due anni di seguito, può esser percepita come sleale ("fissano obiettivi irraggiungibili per non pagare i premi").
Come dicevo, la questione spesso è male impostata. Anzitutto, ci sono molti risultati certo vitali per l’azienda, ma nient’affatto facili da misurare, come la soddisfazione del cliente o la maturazione dei collaboratori, e vanno valorizzati anche se non si possono stimare oggettivamente.
Ma soprattutto, è inutile chiedere "responsabilità", "senso di appartenenza" e "partecipazione" a chi è trattato, di fatto, da mercenario. Una mole enorme di prove in letteratura, derivanti dalle più varie scuole della psicologia moderna, dimostra come le persone - pur se fidelizzate all’azienda da una politica retributiva equa - tendano a dare il meglio di sé se sono motivate intrinsecamente rispetto al lavoro che debbono fare.
La motivazione intrinseca è ciò che dà senso, valore, a quanto si sta facendo. Il mio lavoro deve avere un valore per me come individuo, che vada al di là del "netto in busta", e che contribuisca a mantenere alta la mia autostima, che corrobori la mia identità professionale, facendomi sentire utile agli altri e alla comunità-azienda perché lavoro in un certo modo. Fantasie? No, se ci mettiamo nell’ottica del Capo Diretto, che i suoi collaboratori conosce uno ad uno, e li vede operare ogni giorno, e dei quali sa (dovrebbe sapere) aspirazioni e paure, progetti e speranze, potenzialità e limiti.
Si potrà obiettare che ai Capi Diretti - in genere - le aziende non chiedono, e ancor meno insegnano, di preoccuparsi di tutto questo. Vero. Ma è proprio qui l’errore.

Articolo del:


di Roberto Rigati

L'autore dell'articolo non è nella tua città?

Cerca un professionista con le stesse caratteristiche a te più vicino.

Cerca nella tua città o in una città di tuo interesse