Pensione di reversibilità: come si divide tra ex moglie e vedova


La pensione di reversibilità andrà divisa, tra ex moglie e vedova, principalmente sulla base della durata dei rispettivi matrimoni e sull'entità dell'assegno divorzile
Pensione di reversibilità: come si divide tra ex moglie e vedova

 

Per pensione di reversibilità s’intende la quota parte della pensione che spetta al coniuge una volta morto l’altro coniuge.

Il coniuge defunto deve essere già titolare della pensione, oppure non ancora titolare, ma comunque in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità.


Chi ha diritto a chiedere la pensione di reversibilità?

In primo luogo avranno diritto a chiedere la pensione di reversibilità il coniuge ed i figli (legittimi, legittimati, adottivi, naturali, legalmente riconosciuti) purché minori di 18 anni.

Potranno richiedere la pensione di reversibilità anche i figli in età compresa tra i 18 e i 21 anni, studenti di scuola media superiore o studenti universitari (per tutta la durata del corso legale di laurea, ma non oltre i 26 anni), che erano a carico del genitore deceduto ed a condizione che non svolgano attività lavorativa.

Inoltre, potranno chiedere la pensione di reversibilità i figli invalidi, di qualunque età, sempre a carico del genitore deceduto.

Infine, potranno chiedere la pensione di reversibilità anche i nipoti, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale, purché di età inferiore ai 18 anni ed a carico del dante causa, anche se non formalmente affidati allo stesso.

In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti, potranno chiedere la pensione anche i genitori del pensionato, purché abbiano compiuto 65 anni di età e non siano titolari di pensione diretta o indiretta, e sempre nell’ipotesi in cui erano a carico del dante causa al momento del decesso.

Infine, se il pensionato muore senza coniuge, figli, nipoti e genitori, saranno i fratelli celibi e le sorelle nubili inabili al lavoro, e sempre che erano a carico del lavoratore defunto al momento del decesso, a potere beneficiare della pensione di reversibilità del defunto.

L’ente erogatore della pensione, l’Inps, chiarisce che la condizione “a carico” si configura come uno stato di bisogno determinato dalla non autosufficienza economica e dal mantenimento abituale da parte del dante causa.


Cosa succede se il coniuge è divorziato?

Il coniuge divorziato avrà diritto alla pensione di reversibilità solo se:

- è titolare di assegno di divorzio;

- non ha contratto nuovo matrimonio;

- il dante causa risulti iscritto all’Ente che eroga la pensione prima della sentenza di divorzio.


Cosa succede nel caso di nuovo matrimonio del dante causa?

Nel caso in cui il defunto abbia contratto, dopo il divorzio, un nuovo matrimonio, la pensione di reversibilità andrà ripartita tra la moglie divorziata e la vedova.

La percentuale di ripartizione, dell’unica quota della pensione di reversibilità, tra il coniuge superstite ed il coniuge divorziato sarà stabilita dal Tribunale, con motivata sentenza, su istanza della parte interessata.

La domanda diretta al conseguimento della quota della pensione di reversibilità dell'ex coniuge deceduto dovrà essere depositata presso il Tribunale di residenza, con l'assistenza obbligatoria di un avvocato.

Resta inteso che in caso di morte di uno dei due coniugi titolari della pensione di reversibilità, al coniuge sopravvissuto verrà attribuita la quota intera.


Qual è il criterio principale di ripartizione della quota di pensione tra la moglie divorziata e la vedova del defunto?

Il criterio principale di ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge è dettato dall' art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, laddove prevede che la ripartizione debba essere disposta «tenendo conto» della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali.

Il Giudice, però, non dovrà limitarsi a fare un calcolo aritmetico sulla base della durata di entrambi i matrimoni, ma dovrà tenere conto di altri fattori.

In particolare, sull'interpretazione di questa legge è intervenuta la Corte Costituzionale, con sentenza del 4 novembre 1999 n. 409, sottolineando che all’espressione “tenendo conto” non può essere tuttavia attribuito un significato diverso da quello letterale: il giudice deve "tenere conto" dell’elemento temporale, ma non sino a divenire criterio esclusivo nell’apprezzamento del giudice, la cui valutazione non si riduce ad un mero calcolo aritmetico.

E così, applicando questo principio, la Giurisprudenza, sia si merito che di legittimità, ha ritenuto che in presenza di più aventi diritto alla pensione di reversibilità (il coniuge superstite e l’ex coniuge), il giudice dovrà, ponderare ulteriori elementi, correlati alla finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzarsi quali correttivi del risultato che conseguirebbe all'applicazione del mero criterio temporale (Cass. Civile 2003 n. 2471).

Una recente sentenza Corte di Cassazione, di sotto integralmente trascritta, ha precisato che gli elementi correttivi del criterio temporale vanno ricercati nell'ambito della L. n. 898 del 1970, art. 5, assumendo specifico rilievo:

1.    l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge;

2.    le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, ed in quest'ottica, ed al solo fine di evitare che l'ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio, ed il secondo coniuge il tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita;

3.    l'esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal Giudice del merito quale elemento da apprezzare per una più compiuta valutazione delle situazioni.


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 13-04-2018) 09-05-2018, n. 11202 - DIVORZIO Pensioni Reversibilità

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. A.A., moglie divorziata di C.E., deceduto il 9 agosto 1995, agì giudizialmente, contro F.A., coniuge superstite di quest'ultimo, l'Istituto Nazionale di Previdenza per i dipendenti dell'Amministrazione pubblica (Inpdap) ed il Ministero del Tesoro, per vedersi riconoscere il diritto ad una quota della pensione di reversibilità e del trattamento di fine rapporto traenti origine dal rapporto di lavoro del C., quale magistrato della Corte dei Conti, col predetto Ministero.

1.1. L'adito Tribunale di Roma, con sentenza n. 16531/2003, quantificò nella misura, rispettivamente, del 70% e del 30% le quote della pensione di reversibilità spettanti alla A. ed alla F., valorizzando la maggior durata del primo matrimonio; rigettò la domanda della prima diretta ad ottenere, dalla seconda, la restituzione delle somme relative alla pensione suddetta percepite in misura superiore a quella spettantile; riconobbe il diritto della A. ad una quota del trattamento di fine rapporto dell'ex coniuge, in ragione del 40% dell'indennità totale corrisposta al C. per i 36 anni di lavoro prestato, e condannò la F., quale sua erede, al pagamento del relativo importo, liquidato in L.. 45.922.561, omettendone, però, la pronuncia in dispositivo.

1.2. La Corte d'appello di Roma, con sentenza n. 4164 del 2002, respinse il gravame principale della F., preversibilità declaratoria di inammissibilità della prova per testi da lei richiesta, e, in accoglimento di quello incidentale della A., la condannò al pagamento, in favore di quest'ultima, della somma predetta, oltre interessi legali.

1.3. Questa Suprema Corte, adita dalla F., con sentenza n. 4867/2006 ne accolse il solo secondo motivo di ricorso, e cassò la decisione impugnata, rinviando alla corte d'appello, in diversa composizione, per l'applicazione del principio di diritto contestualmente enunciato e per la disciplina delle spese processuali, incluse quelle del giudizio di legittimità.

1.4. Riassunto il processo, il giudice di rinvio, con sentenza n. 1159/2008, rideterminò nella misura, rispettivamente, del 60% e del 40% le quote della pensione di reversibilità spettanti alla A. ed alla F.; dichiarò, conseguentemente, l'obbligo dell'Inpdap di provvedere, con decorrenza dal primo mese successivo alla morte del C., alla ripartizione tra le stesse della predetta pensione, secondo la proporzione suindicata, salvo il diritto di ripetizione dell'ente previdenziale nei riguardi della parte finora beneficiata di una quota superiore rispetto a quella riconosciutale; compensò integralmente le spese del giudizio di riassunzione e di cassazione, confermando, nel resto, l'impugnata sentenza.

1.5. Nuovamente adita dalla F., la Suprema Corte, con sentenza n. 11226 del 2013 cassò anche quella decisione, ritenendola affetta da vizio motivazionale nella parte in cui aveva giudicato inammissibile la prova testimoniale della ricorrente, e, conseguentemente, non rispettosa del principio di diritto sancito nella sua precedente pronuncia n. 4867/2006.

1.6. La Corte di appello di Roma, quale giudice di rinvio innanzi al quale il processo fu ulteriormente riassunto, con sentenza n. 1235/2015, resa il 20 febbraio 2015 e notificata il successivo 20 marzo 2015, ritenne inammissibile la menzionata prova testimoniale, procedette al riesame degli elementi valutabili ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra la F. e la A. e ne attribuì a ciascuna di esse una quota pari al 50%, con conseguente obbligo dell'Inpdap di provvedere, con decorrenza dal primo mese successivo alla morte del C., alla descritta ripartizione tra loro secondo la proporzione suindicata, salvo il suo diritto di ripetizione delle somme versate in eccesso.

2. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la A., affidato a cinque motivi ed ulteriormente illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1. Nessuna delle altre parti intimate ha spiegato difese.

2.1. Il primo motivo, rubricato "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell'art. 384 c.p.c., per infedele esecuzione, da parte del Giudice di rinvio, del dictum reso inter partes da codesta Corte con sentenza n. 11226/2013", assume che, per ottemperare compiutamente alla statuizione di quest'ultima, la corte di merito, una volta esaminata la prova testimoniale dedotta dalla F., e ritenutane la inammissibilità quanto al primo capo e la irrilevanza degli altri due, avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi ulteriore riesame dei criteri correttivi, e, dunque, confermare la precedente ripartizione della pensione di reversibilità statuita nel 60% in favore della A. e nel 40% per la F..

2.2. I motivi dal secondo al quarto, tutti denuncianti "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3", censurano la nuova ripartizione, in ragione del 50% ciascuna, delle quote della suddetta pensione in favore delle aventi diritto come concretamente giustificata dalla sentenza oggi impugnata.

2.3. Il quinto motivo, infine, recante "Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione o falsa applicazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4, anche in relazione all'art. 111 Cost.", individua la denunciata violazione di legge nell'insanabile contraddittorietà tra diverse, ma collegate, parti della motivazione della medesima sentenza.

3. Il primo motivo è infondato.
3.1. Giova premettere che la decisione di legittimità n. 11226 del 2013, il cui dictum la A. assume essere stato disatteso dalla corte capitolina nella propria sentenza n. 1235/2015, dopo aver ripercorso l'iter del processo fino a quel momento, rilevò, innanzitutto (cfr. pag. 11-13), che "Questa Corte, nella pronuncia 4867/2006, nell'accogliere il secondo motivo del ricorso della F., respinti gli altri, ha enunciato il principio di diritto, al quale avrebbe dovuto attenersi il Giudice del rinvio, richiamando la propria precedente giurisprudenza in relazione alla ripartizione del trattamento di reversibilità in caso di concorso tra il coniuge superstite ed il coniuge divorziato, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, e specificamente indicando che tale ripartizione "deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale (ossia del dato numerico rappresentato dalla proporzione fra le estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi coniugi con l'ex coniuge deceduto) anche ponderando ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale; fra tali elementi, da individuarsi nell'ambito della L. n. 898 del 1970, art. 5, specifico rilievo assumono l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge, nonché le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, ed in quest'ottica, ed al solo fine di evitare che l'ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio, ed il secondo coniuge il tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita, anche l'esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal Giudice del merito quale elemento da apprezzare per una più compiuta valutazione delle situazioni". La S.C. ha pertanto annullato la sentenza della Corte d'appello (il riferimento era a quella n. 4164/2002. Ndr) per non essersi uniformata a detto principio ed ha conseguentemente ritenuto assorbite "le ulteriori censure sollevate dalla ricorrente nel secondo motivo in relazione alla ritenuta inammissibilità delle richieste istruttorie formulate per provare la durata della convivenza tra la stessa F. e il C. ed alla situazione economica ed allo stato di salute delle parti, in quanto l'esigenza di prendere in considerazione e valutare, come elemento correttivo del criterio matematico della durata dei rispettivi matrimoni, anche i periodi di convivenza comporta il complessivo riesame degli elementi correttivi da prendere in considerazione per la determinazione delle quote di pensione di reversibilità spettante alle parti e delle istanze istruttorie formulate a tale riguardo". La pronuncia di legittimità n. 4867/2006 indicò, pertanto, chiaramente la valutazione spettante al giudice del rinvio ed individuò esattamente il punto della motivazione carente nella sentenza (quella n. 4164/2002 della Corte di appello di Roma) ivi impugnata, in relazione all'indagine sulla durata dell'effettiva convivenza prematrimoniale del C. con la F..

3.1.1. La citata Cass. n. 11226/2013, inoltre, dopo aver evidenziato (cfr. pag. 11-13) che la sua precedente decisione inter partes n. 4867/2006, aveva anche "precisato che le ulteriori valutazioni sulle prove e sugli altri elementi correttivi già individuati erano di spettanza del Giudice del rinvio, che avrebbe dovuto provvedere al complessivo riesame degli elementi correttivi, dovendo lo stesso prendere in considerazione anche i periodi di effettiva convivenza", così indicando anche l'iter logico-giuridico che avrebbe dovuto seguire il giudice del rinvio, ritenne la motivazione adottata da quest'ultimo (con la sentenza n. 1159/2008), "in relazione alla ritenuta genericità ed irrilevanza dei capitoli di prova dedotti dalla F. e riportati nell'atto di riassunzione,... palesemente illogica e carente, in quanto argomenta sulla rilevanza (giudizio che comunque le competeva, per il rinvio operato dalla Cassazione, né sul punto si era formato alcun accertamento definitivo, ed anzi tale fatto costituiva l'oggetto dell'indagine richiesta al Giudice del rinvio) dei capitoli 2 e 3, siccome correlati al capitolo 1, sul quale la Corte del merito tace completamente" (cfr. pag. 14). Concluse, dunque, ravvisando la violazione, ad opera del predetto giudice di rinvio, del principio di diritto rimesso dalla S.C. nella pronuncia 4867/2006, cassò la sentenza (n. 1159/2008 della corte territoriale romana) innanzi ad essa impugnata ed affidò nuovamente alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, di "provvedere alla valutazione delle istanze istruttorie della F.... ed al complessivo riesame degli elementi correttivi da prendere in considerazione per la determinazione delle quote della pensione di reversibilità spettante alle parti" (cfr. pag. 16).

3.2. E' evidente, quindi, proprio alla stregua di quest'ultimo passaggio motivazionale, che il nuovo giudice di rinvio, per ottemperare a quanto prescrittogli dalla riportata pronuncia di legittimità, doveva sia rivalutare l'ammissibilità, o meno, della prova originariamente articolata dalla F., sia procedere "al complessivo riesame degli elementi correttivi" predetti: in altri termini, quel giudice avrebbe dovuto comunque riconsiderare entrambi tali profili, e non, invece, procedere a rivagliare il secondo (come oggi preteso dalla odierna ricorrente) soltanto ove avesse ritenuto ammissibile quella prova.

3.2.1. La sentenza della corte capitolina n. 1235/2015, come agevolmente può evincersi dalla lettura della sua motivazione, ha, dunque, adempiuto (chiaramente irrilevante essendo, ai fini dello scrutinio della censura in esame, il fatto che la A. non ne condivida gli esiti) a quanto complessivamente richiesto da Cass. n. 11226/2013, avendo valutato, ex novo, la prova testimoniale predetta ed i menzionati elementi correttivi utilizzabili per la determinazione delle quote della pensione di reversibilità spettanti a ciascuna delle aventi diritto, da ciò derivandone la infondatezza della corrispondente doglianza della ricorrente.

4. Analoga sorte merita, integralmente, il quinto motivo di ricorso - il cui esame appare logicamente prioritario rispetto al secondo, al terzo ed al quarto - che individua la ivi denunciata violazione di legge nell'insanabile contraddittorietà tra diverse, ma collegate, parti della motivazione della indicata sentenza n. 1235/2015.

4.1. La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, che ha sostituito l'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate, come quella in esame, successivamente all'11 settembre 2012), ha, infatti, limitato l'impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", sicché, al di fuori dell'indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111 Cost., comma 6, ed individuato "in negativo" dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (formatasi in materia di ricorso straordinario) in relazione alle note ipotesi - qui assolutamente insussistenti alla stregua delle argomentazioni tutte spese dalla corte capitolina - di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, di motivazione apparente, di manifesta ed irriducibile contraddittorietà, di motivazione perplessa od incomprensibile.

4.1.1. La fattispecie di cui all'art. 360 c.p.c., novellato n. 5, esclude, dunque, la sindacabilità, in sede di legittimità, della correttezza logica della motivazione di idoneità probatoria di determinate risultanze processuali, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di contraddittorietà o insufficienza della motivazione. La novella, invero, ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la parte ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" ed il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass., S.U., n. 8053 del 2014, nonché, più recentemente, ex multis, Cass. n. 7472 del 2017; Cass. n. 21304 del 2016).

4.2. E', poi, noto che la struttura ad istruzione chiusa, propria del giudizio di rinvio (cfr., per tutte, Cass. n. 341 del 2009), non consente alla parte di sollevare o al giudice di rilevare d'ufficio nuove eccezioni o questioni che richiedano un ulteriore accertamento in fatto. Ciò prescinde da eventuali accettazioni del contraddittorio da parte dell'avversario, atteso che nel giudizio di rinvio la delimitazione della res litigiosa è nell'interesse pubblico e, quindi, non è nella disponibilità delle parti (cfr. Cass. n. 3970 del 2003).

4.2.1. E' pur vero che l'estensione dei poteri del giudice di rinvio varia a seconda che l'annullamento sia avvenuto per violazione di norme di diritto (come avvenuto, nella lunga vicenda processuale de qua, con Cass. n. 4867 del 2006) o per vizi della motivazione (come verificatosi, nella medesima vicenda, con Cass. n. 11226 del 2013), nel senso che, mentre, nella prima ipotesi, egli è tenuto soltanto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti già acquisiti al processo, nella seconda conserva le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito (cfr. Cass., SU, n. 9095 del 1997; Cass. n. 13719 del 2006; Cass. n. 2606 del 2009). Tuttavia, tali facoltà attengono solo ai poteri di valutazione delle prove (e, quindi, dei soli fatti, nell'ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento), oltre che alle questioni di diritto precedentemente non esaminate o all'attività assertiva e/o probatoria resasi necessaria alla luce del contenuto della sentenza rescindente, ove questa abbia determinato una modificazione del thema decidendum definendo in modo diverso il rapporto dedotto in giudizio e, così, imprimendo alla controversia un nuovo indirizzo, con conseguente necessario mutamento della difesa delle parti.

4.2.2. Nè il giudice di rinvio può - anche soltanto implicitamente rimettere in discussione gli enunciati contenuti nella sentenza di cassazione o quelli che ne costituiscono il necessario presupposto (cfr., ex aliis, Cass. n. 16171/15).

4.2.3. In breve, nel giudizio di rinvio resta precluso l'esame di ogni questione logicamente pregiudiziale ed incompatibile, non rilevata dalla Corte Suprema o perché non investita della sua decisione da un motivo di ricorso o anche perché la questione, pur se in astratta ipotesi rilevabile d'ufficio, non lo è stata. La pronuncia di legittimità può essere, dunque, rimessa in discussione nel giudizio di rinvio solo in base a fatti sopravvenuti al passaggio in decisione della causa in appello o a mutamenti normativi successivi alla pubblicazione della sentenza di cassazione (cfr. Cass. 25153 del 2017; Cass. n. 17167 del 2002; Cass. n. 11614 del 1998).

4.3. Alla stregua di tutti questi principi, pertanto, non è certamente ipotizzabile il vizio di nullità della sentenza impugnata come prospettato dalla A., posto che essa chiaramente ha esplicato le ragioni del proprio convincimento ed il come ad esso era giunta seguendo le prescrizioni impostele da Cass. n. 11226/2013 (ed ininfluente essendo, anche qui, ai fini dello scrutinio della censura in esame, il fatto che la ricorrente non ne condivida gli esiti), né rilevando, atteso il delimitato perimetro operativo del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, eventuali ed asserite contraddizioni logiche della sua motivazione, nella specie, peraltro, ad avviso di questo Collegio, insussistenti, o comunque non manifeste nè irriducibili, come si dirà appresso.

5. I motivi dal secondo al quarto, infine, esaminabili congiuntamente perché connessi, denunciando, tutti, una pretesa violazione o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3, e censurando la nuova ripartizione, in ragione del 50% ciascuna, delle quote della pensione di reversibilità in favore delle aventi diritto come concretamente giustificata dalla sentenza oggi impugnata, sono complessivamente inammissibili, perché le prospettate violazioni di legge si basano e presuppongono, in realtà, una diversa valutazione e ricostruzione delle risultanze di causa (la durata legale dei matrimoni; l'entità dell'assegno divorzile percepito dall' A. all'epoca del decesso del coniuge; il rilevante divario tra le risorse economiche personali delle due coniugi in senso sfavorevole per quella divorziata; il riscontro di una convivenza coniugale e prematrimoniale della coniuge superstite superiore alla durata della convivenza coniugale effettiva vantata dalla coniuge divorziata; la protrazione da lungo tempo della relazione sentimentale tra la coniuge superstite ed il C.), censurabili - peraltro solo nei ristretti limiti già evidenziati - sotto il profilo del vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.1. Giova, invero, premettere che, come assolutamente pacifico (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 24054 del 2017; Cass. n. 22707 del 2017), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l'uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall'art. 65 ord. giud.); viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge ed impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero, erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr., in tal senso, Cass. nn. 16698 e 7394 del 2010, oltre che, in motivazione, le già menzionate statuizioni nn. 24054 e 22707 del 2017).

5.2. Costituisce, altresì, principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell'art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell'ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. 24 novembre 2016, n. 24298; Cass. 8 marzo 2007, n. 5353).

5.3. Nella fattispecie in esame, la corte territoriale, richiamati i principi (già precedentemente riportati esaminandosi il primo motivo di ricorso) sanciti dalla Corte di cassazione con la sentenza 4867/2006, cui la prima doveva attenersi per il ripetuto richiamo espresso dalla Suprema Corte anche con la ulteriore sentenza di rinvio n. 11226 del 2013, ha, innanzitutto proceduto all'esame dei capitoli della prova testimoniale originariamente richiesta dalla F. sul punto della convivenza prematrimoniale con il coniuge, giungendo alla conclusione - qui non sindacabile perché esaustivamente argomentata - che le corrispondenti circostanze "come dedotte, risultano inammissibili ovvero inidonee, singolarmente e pur complessivamente considerate, a fornire il riscontro probatorio della convivenza oggetto di prova" (cfr. pag. 8 della decisione impugnata).

5.3.1. Successivamente, onde riesaminare (cfr. pag. 8-10) gli elementi valutabili ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra le coniugi (entrambe titolari di autonomo diritto), la stessa ha analiticamente descritto i corrispondenti dati evincibili dagli atti di causa, alla stregua dei quali ha, poi, così concluso: "...valutati, dunque, la durata legale dei matrimoni, l'entità dell'assegno divorzile percepito dall' A. all'epoca del decesso del coniuge, il rilevante divario tra le risorse economiche personali delle due coniugi in senso sfavorevole per la coniuge divorziata, il riscontro di una convivenza coniugale e prematrimoniale della coniuge superstite superiore alla durata della convivenza coniugale effettiva vantata dalla coniuge divorziata, la protrazione da lungo tempo della relazione sentimentale tra la coniuge superstite ed il C. (circostanza che rende verosimile l'instaurazione di una convivenza "part time" pregressa al pensionamento di quest'ultimo e la definitiva stabilità con il collocamento in quiescenza del 1992 ed il trasferimento da Roma a Pallerone), tenuto conto della duplice funzione della pensione di reversibilità di prosecuzione del sostentamento del coniuge superstite assicurato dal reddito dei coniuge deceduto e di continuità del sostegno economico nei confronti dell'ex coniuge titolare di assegno divorzile nonché il diritto di quest'ultima ad un trattamento pensionistico collegato anche al periodo in cui sussisteva il rapporto coniugale, appare equo ripartire il trattamento pensionistico in pari quota tra le due titolari" (cfr. pag. 9-10).

5.3.2. La corte territoriale ha, altresì, aggiunto che "Né - appare opportuno osservare - il riscontro probatorio di una convivenza stabile e consolidata tra l'appellante ed il C. sin dall'epoca indicata (1983) avrebbe potuto determinare una differente ponderazione degli elementi correttivi al criterio della durata legale dei matrimoni, risultando comunque prevalente, nel bilanciamento da operare, la sperequazione economica tra le due coniugi in senso sfavorevole per la coniuge divorziata" (cfr. pag. 10).

5.4. Si tratta, come è di tutta evidenza, di valutazioni di merito che non presentano alcun vizio logico e/o giuridico, sicché non sono suscettibili di essere riconsiderate nel giudizio di legittimità.

5.4.1. Così statuendo, del resto, la corte romana ha dato concreta e corretta attuazione al principio di diritto prescrittole da Cass. n. 4867 del 2006 (espressamente richiamato dalla Suprema Corte anche con la ulteriore sentenza di rinvio n. 11226 del 2013), la quale "in ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità ed alla luce dei precetti costituzionali di uguaglianza sostanziale e solidarietà sociale (nonché tenuto conto della sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale 4 novembre 1999, n. 419)", le aveva imposto che la ripartizione del trattamento di reversibilità dovesse "essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale (ossia del dato numerico rappresentato dalla proporzione fra le estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi coniugi con l'ex coniuge deceduto), anche ponderando ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al diritto di reversibilità, da utilizzare eventualmente quali correttivi del criterio temporale", ed aveva specificato che "fra tali elementi, da individuarsi nell'ambito della L. n. 898 del 1970, art. 5, specifico rilievo assumono l'ammontare dell'assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell'ex coniuge, nonché le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, ed in quest'ottica, ed al solo fine di evitare che l'ex coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio, ed il secondo coniuge il tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita, anche l'esistenza di un periodo di convivenza prematrimoniale del secondo coniuge potrà essere considerata dal Giudice del merito quale elemento da apprezzare per una più compiuta valutazione delle situazioni".

5.4.2. E' palese, infatti, che la sentenza impugnata ha valutato la durata di ciascun rapporto coniugale, non considerandolo, però, in modo esaustivo, bensì concorrente con gli altri criteri, più concreti e flessibili, e da graduarsi secondo il proprio discrezionale apprezzamento, individuati dal principio di diritto al cui rispetto era tenuta.

5.4.3. La ricorrente, invece, pur denunciando, apparentemente, violazioni di legge della impugnata sentenza, lungi dal dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto ivi contenute debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, chiede, in realtà, alla Suprema Corte di pronunciarsi ed interpretare questioni di mero fatto (la durata legale dei matrimoni; l'entità dell'assegno divorzile percepito dall' A. all'epoca del decesso del coniuge; il rilevante divario tra le risorse economiche personali delle due coniugi in senso sfavorevole per quella divorziata; il riscontro di una convivenza coniugale e prematrimoniale della coniuge superstite superiore alla durata della convivenza coniugale effettiva vantata dalla coniuge divorziata; la protrazione da lungo tempo della relazione sentimentale tra la coniuge superstite ed il C.) non censurabili in questa sede, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto dei fatti storici quanto le valutazioni di quei fatti espresse dal giudice di appello - non condivise e per ciò solo censurate - al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone alle proprie aspettative (cfr., tra le più recenti, Cass. 4 aprile 2017, n. 8758).

5.4.4. In altri termini, le doglianze di cui ai motivi in esame mirano, esclusivamente, a sollecitare un riesame dell'apprezzamento compiuto dal Giudice di merito in ordine alle suddette risultanze, la cui sindacabilità in sede di legittimità, già esclusa in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, trattandosi di un profilo non attinente all'interpretazione di una norma di legge, ma alla ricostruzione della fattispecie concreta, deve ritenersi non più consentita neppure sotto il profilo del vizio di motivazione alla stregua del testo novellato dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il cui perimetro operativo, come si è ampiamente detto in precedenza, è circoscritto all'omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, da intendersi come totale omissione, e non già come semplice insufficienza o contraddittorietà, della motivazione in ordine ad un fatto storico, principale o secondario, idoneo a determinare direttamente l'esito del giudizio, la cui esistenza risulti dalla stessa sentenza o dagli atti processuali, con la conseguente esclusione della possibilità di far valere, quale motivo di ricorso, l'omessa o errata valutazione di elementi istruttori (cfr. Cass. n. 14324 del 2015; Cass. n. 15205 del 2014; Cass. n. 16300 del 2014).

5.5. Infine, merita di essere ricordato che, nel quadro del principio, espresso nell'art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché - come accaduto nella specie - risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017).

6. Il ricorso va, dunque, respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese in assenza di costituzione degli intimati e dandosi atto, altresì, - in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) - della sussistenza dei presupposti per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (applicabile ratione temporis, essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione: norma in forza della quale il giudice dell'impugnazione è vincolato, pronunziando il provvedimento che definisce quest'ultima, a dare atto della sussistenza dei presupposti (rigetto integrale o inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione) per il versamento, da parte dell'impugnante soccombente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione proposta.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis.

Va, disposta, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2018

 

 

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di Avv. Agnese Milianelli

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