Quando l'avvocato può trattenere i soldi di spettanza del cliente?


L'avvocato può trattenere soldi del cliente senza sua autorizzazione? L'avvocato può compensare in autonomia il suo compenso con i crediti del cliente versi terzi?
Quando l'avvocato può trattenere i soldi di spettanza del cliente?

Un avvocato, se non espressamente e specificamente autorizzato dal cliente, non è legittimato alla riscossione di somme in nome e per conto del cliente e, qualora vi provveda, pur in mancanza di autorizzazione, deve immediatamente rimettergli le somme a disposizione.

Questo è quanto emerge dal dettato normativo dell'art. 30 codice deontologico forense, che stabilisce che “L’avvocato deve gestire con diligenza il denaro ricevuto dalla parte assistita o da terzi nell’adempimento dell’incarico professionale ovvero quello ricevuto nell’interesse della parte assistita e deve renderne conto sollecitamente. L’avvocato non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di quest’ultima […] La violazione del dovere di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dei doveri di cui ai commi 2 e 4 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno”, ed ancora, più nello specifico, dell’art. 31 codice deontologico forense, che sancisce che “L’avvocato deve mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto della stessa. L’avvocato ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute a rimborso delle anticipazioni sostenute, con obbligo di darne avviso al cliente. 3. L’avvocato ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute imputandole a titolo di compenso:a) quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita; b) quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l’avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita; c) quando abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente. 4. La violazione del dovere di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. La violazione del dovere di cui al comma 2 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”.

Tuttavia, la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che la necessità di “espressa autorizzazione” può essere ricavata anche da un'interpretazione della procura rilasciata dal cliente all’avvocato al momento del conferimento dell’incarico, sempre che dalla stessa possa desumersi che l’avvocato sia stato indicato quale destinatario del pagamento ex art. 1188, I co. c.c. e di conseguenza il versamento allo stesso di somme di pertinenza del proprio cliente libererebbe il debitore.

Ci si riferisce, più in particolare, alla fraseologia quale “riconoscimento allo stesso della facoltà di compiere quant'altro sia opportuno e necessario nell'interesse”, oppure “il tutto con dichiarazione di avere per rato e valido l'operato dei nominati procuratori senza bisogno di ulteriori atti di ratifica e/o conferma” (vedasi al riguardo la sentenza della Corte di Cassazione, III Sezione civile, 25 settembre 2018, n. 22544).

Ancora meglio, la giurisprudenza, con orientamento consolidato, ha affermato che “il procuratore ad litem, se non è specificamente autorizzato, non è legittimato a riscuotere le somme dovute al proprio cliente ed a liberare il debitore” (Cass. Civ., 24 aprile 1971, n. 1199 e 9 settembre 1998, n. 8927).

Tuttavia, “ciò non toglie che pur in difetto di una specifica autorizzazione ad operare come rappresentante del creditore, rinvenibile nella già citata procura notarile ad lites, la legittimazione del X a riscuotere i crediti di Y potesse trovare titolo nel conferimento di un autonomo potere, ex art. 1188, comma 1, cod. civ., di ricevere la prestazione, quale mero indicatario di pagamento”.

E questo sulla scorta delle differenze esistenti tra "rappresentante" e "indicato al pagamento", tanto è vero che “l'art. 1188 cod. civ., dopo avere enunciato la regola che il pagamento deve essere fatto al creditore, consente che questi può commettere anche ad altri soggetti di ricevere la prestazione, secondo il principio per cui la titolarità di un diritto non ne implica la necessaria gestione da parte del titolare, il quale ben può affidarla ad altri; orbene, il fatto che la legge distingua tra rappresentante e soggetto (espressamente o tacitamente) indicato dal creditore implica, poi, che la designazione del secondo (denominato anche adiectus solutionis causa) avviene al di fuori di un rapporto di rappresentanza in senso tecnico, come si ricava logicamente dal fatto che le due categorie di soggetti sono indicate distintamente" (così, in motivazione, Cass. Civ., 23 giugno 1997, n. 5579). Conseguentemente, “a prescindere dall'esistenza di un (espresso) potere di riscuotere la prestazione conseguente alla sua posizione di procuratore ad lites, l'Avv. …. potesse porsi come indicatario di pagamento, come ha ritenuto la sentenza impugnata, senza, pertanto, che il giudice di appello sia incorso in alcuna violazione e/o falsa applicazione degli artt. 84, comma 2, cod. proc. civ. e 1188, comma 1, cod. civ.” (Cass. Civ., 11 novembre 2015, n. 23017).

Pertanto, qualora manchi la necessaria autorizzazione, si ravvisa in capo all'avvocato non solo una responsabilità disciplinare, con conseguente sospensione dall’esercizio dell’attività professionale e/o censura, ma altresì una responsabilità professionale contrattuale dello stesso ex art. 1218 e 2236 codice civile nei confronti del cliente, per aver illegittimamente ricevuto e trattenuto a sé le somme, ciò configurando un inadempimento del vincolo contrattuale intercorrente a seguito del conferimento dell'incarico.

Difatti, il debitore (ossia l'avvocato) che non esegue esattamente e diligentemente la prestazione dovuta incorre in responsabilità contrattuale e di conseguenza è tenuto al risarcimento del danno (ex art. 1218 e 2236 c.c. ).

A ciò si aggiunga che la condotta dell'avvocato che illegittimamente trattiene a sè i soldi del cliente configura altresì una responsabilità penale, ricorrendo i presupposti della fattispecie di reato di appropriazione indebita di cui all'art. 646 codice penale (vedasi sentenza della Corte di Cassazione a n 10977/2018).

Oltretutto, in caso di compensazione tra compensi dell’avvocato verso il cliente e somme ricevute dallo stesso per conto del cliente, si afferma che, come già precisato, la stessa può avvenire in casi determinati, ossia solo se vi sia il consenso del cliente e della parte assistita oppure si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l’avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita, o, infine, quando l'avvocato abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente.

In ogni caso, pur sussistendo dette condizioni, la compensazione per essere attuata necessita del fondamentale requisito della reciprocità, come stabilito dall’art. 1241 codice civile, ossia avvocato e cliente devono essere entrambi debitore – creditore l'uno verso l'arto (l’avvocato deve essere creditore del cliente e viceversa il cliente deve essere creditore dell'avvocato).

In aggiunta, la Corte di Cassazione con sentenza n 10977/2018 ha espressamente affermato che i crediti della parcella del legale non sono certi, liquidi ed esigibili e pertanto non sono idonei per operare una compensazione; principio sancito anche dall'art. 1243 codice civile.

Articolo del:


di AVV. ADELE MARIA CRISTINA UDA

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