Risarcimento danni: responsabilità di ospedali e RSA per contagio Covid-19

Come era prevedibile, nella primavera scorsa, dopo il primo smarrimento e dolore per la perdita dei propri cari a causa della pandemia da Covid-19, sono iniziate a scattare le prime denunce contro ospedali e RSA (acronimo di “Residenze Sanitarie Assistenziali”) in cui si sono verificati migliaia di decessi a causa del Coronavirus.
L’accusa dei parenti delle vittime è che non si siano prese tutte le precauzioni necessarie per contenere il contagio all’interno delle strutture e, a fronte di ciò, richiedono il risarcimento dei danni.
Sul punto va premesso che occorrerà attendere i risultati delle indagini in corso nelle principali procure italiane per verificare se effettivamente vi siano state delle mancanze e inefficienze tali da giustificare il risarcimento dei danni. Conseguentemente, non pare vi siano ancora sentenze di merito e, quindi, tantomeno di legittimità che diano delle indicazioni in merito al quantum (cioè all’ammontare dell’eventuale risarcimento).
Inoltre, va fatta un’altra considerazione: se nella prima ondata della pandemia ospedali e strutture sanitarie potevano forse essere “impreparate”, attualmente, con la seconda ondata non dovrebbe essere così. Eppure, le RSA sono di nuovo sotto la lente di ingrandimento per i recenti e numerosi contagi e decessi tra gli ospiti e personale socio-sanitario. Anche gli ospedali sono in emergenza e non solo per il numero impressionante di pazienti affetti da Coronavirus: soltanto lo scorso mese di novembre si sono contagiati in 27.000 tra medici e infermieri, circa 900 al giorno, assottigliando di molto il personale impegnato in prima linea.
In attesa, dunque, degli accertamenti e delle prime sentenze si possono certamente, però, fare delle riflessioni sul tipo di responsabilità eventuale degli ospedali e delle RSA (che, seppur simile, presenta differenze tra le due strutture), sul tipo di risarcimento e sulla sua trasmissibilità agli eredi.
Altra doverosa premessa che mi preme fare è che solo a fronte di comprovate inadempienze si può pensare di procedere con un’azione legale e di non utilizzare il sistema della giustizia solo per “tentare” di ottenere ristoro dalla perdita del proprio caro.
Detto ciò, e tornando al tema stringente del risarcimento dei danni, è possibile agire in sede penale, costituendosi parte civile, ma soprattutto in sede civile agendo direttamente contro la struttura incriminata.
Covid-19: la responsabilità degli ospedali (o dei medici?)
La giurisprudenza si è espressa più volte sul tema della responsabilità e, soprattutto, sulla sua natura modificando nel tempo l’orientamento. Anche il legislatore è intervenuto più volte per chiarire chi, a fronte di un inadempimento e danno al paziente, debba rispondere del risarcimento.
Gli ultimi provvedimenti legislativi sono stati, come noto, la Legge Balduzzi (Legge n. 189/2012 di conversione del D.L. n. 158/2012) e la successiva Legge Gelli (Legge n. 24/2017).
Da marzo, il tema della responsabilità medica emerge nuovamente con notevole impatto a seguito delle “morti sospette” da Coronavirus.
Con l’accesso del paziente in ospedale, sia pubblico che privato, si instaura tra quest’ultimo e la struttura sanitaria un rapporto di natura contrattuale in base al quale si fonda una responsabilità derivante da "contratto (atipico) di spedalità".
Con il “contratto di spedalità” la struttura si assume l’onere di assistere e curare il paziente secondo la diligenza “del buon padre di famiglia” che deriva da un’obbligazione di mezzi.
Il rapporto obbligazionario che sorge è sancito nell’art. 1173 del codice civile, che dispone: “Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico”.
La tipologia di obbligazione, inoltre, è detta di mezzi poiché il medico (e in generale tutto il personale sanitario) ha come obiettivo la cura e l’assistenza del paziente adottando tutte le competenze e conoscenze professionali necessarie, ma non deve sottostare all’obbligo della completa guarigione (in altre parole il medico non ha come obbligazione la guarigione del paziente, ma l’assistenza professionale per poterla raggiungere).
Proprio per tale motivo, il decesso da Covid-19 è imputabile alla struttura sanitaria soltanto nel caso in cui si provi che non sono state adottate tutte le misure necessarie per evitare il contagio e che non si siano seguite le linee guida e i protocolli previsti in merito.
Ma chi deve risarcire? La struttura ospedaliera o il medico?
Come scritto sopra, la responsabilità dell’ospedale è di natura contrattuale, mentre quella del medico è di natura extracontrattuale (ovvero mediata dalla struttura in cui svolge la propria attività).
Anche tra medico e paziente potrebbe sorgere un’obbligazione di natura contrattuale, ma soltanto se il medico svolge le sue prestazioni in extra moenia o in intra moenia (ovvero attraverso la libera professione).
Nella prima fase di emergenza da Covid-19, le attività mediche in libera professione sono state sospese, dunque, l’eventuale responsabilità del medico è necessariamente di natura extracontrattuale.
Da ciò ne consegue, dunque, che chi intenda avviare una causa civile richiedendo il risarcimento dei danni, dovrà agire contro la struttura sanitaria. Sarà, poi quest’ultima, nel caso, a rivalersi sul medico inadempiente.
Una differenza di non poco conto tra natura contrattuale ed extracontrattuale dei contratti riguarda su chi debba ricadere l’onere della prova.
Se vi è natura contrattuale, l’onere della prova ricade su chi è inadempiente (in questo caso sulla struttura ospedaliera) sul quale grava il risarcimento del danno se non prova di aver adempiuto in maniera diligente alla propria obbligazione. La fattispecie in questione è prevista dall’art. 1218 del c.c. che recita: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
Se vi è natura extracontrattuale, l’onere della prova spetta al danneggiato (in questo caso ai parenti delle vittime) che deve provare di aver subito un danno. La fattispecie in questione, invece, è prevista dall’art. 2043 del c.c. che dispone: “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Covid-19: il caso delle RSA
Discorso leggermente differente va fatto circa le RSA che non sono strutture ospedaliere, ma che in tema di responsabilità civile, presentano aspetti simili.
Ad oggi sono state avanzate diverse richieste di risarcimento da parte dei parenti delle vittime (nella maggioranza dei casi) e dagli ospiti sopravvissuti all’infezione da Covid-19.
Come per il risarcimento danni per i pazienti ricoverati nelle strutture ospedaliere, non esiste al momento, a quanto consta, alcuna sentenza di merito né tantomeno di legittimità, ma alcuni dati sono stati diffusi il 17 giugno 2020 dall’ISS (Istituto Superiore di Sanità) al termine di una indagine proprio sui decessi nelle RSA riferiti al periodo dal 1° febbraio al 30 aprile 2020.
Innanzitutto, va detto che, in base ai dati diffusi dall’ISS, solo 1.356 RSA su quelle contattate hanno risposto al questionario, pari al solo 41,3% del totale (hanno riferito i dati registrati tra il 1° febbraio al 30 aprile 2020). Di loro, circa l’11% delle RSA ha dichiarato di non avvalersi di medici nello svolgimento dell’attività.
E tale ultimo dato va letto considerato che, in base all’indagine, in media, sono presenti 2,5 medici, 8,5 infermieri e 31,7 OSS (operatori socio-sanitari) per ciascuna RSA.
Ma i dati da porre maggiormente sotto la lente di ingrandimento sono quelli sui decessi.
In base ai dati forniti dalle RSA che hanno risposto al questionario, gli ospiti registrati il 1° febbraio 2020 erano 97.521, vale a dire una media di 72 residenti per struttura.
Ma solo 680 degenti erano risultati positivi al tampone mentre 3092 avevano presentato sintomi influenzali. Dunque, come risulta dall’indagine dell’ISS “il 7,4% del totale dei decessi ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 e il 33,8% ha interessato residenti con manifestazioni simil-influenzali a cui però non è stato effettuato il tampone”. Tali percentuali, però, contrastano con i numeri diffusi ad aprile sempre dall’ISS (Istituto Superiore della Sanità) che dicevano come, tra gli anziati deceduti già ospiti in una RSA o CRA, circa il 40% era risultato affetto da COVID19.
Ma i dati che fanno riflettere di più sono quelli sulle difficoltà riscontrate dalle RSA e che poi sono alla base delle doglianze dei parenti delle vittime e dagli ospiti infettati.
Sulle 1.259 strutture che hanno risposto a specifiche domande:
- 972 strutture (pari al 77,2%) hanno dichiarato che i Dispositivi di Protezione Individuale erano mancanti;
- 330 strutture (pari al 26,2%) hanno dichiarato di avere avuto difficoltà nell’isolamento degli ospiti affetti da Coronavirus;
- 282 (pari al 22,4%) strutture hanno rivelato l’impossibilità nel poter eseguire i tamponi;
- 157 strutture (pari al 12,5%) hanno sottolineato la difficoltà nel trasferire i residenti affetti da COVID-19 in strutture ospedaliere;
- 425 strutture (pari al 33,8%) hanno rimarcato l’assenza di personale sanitario;
- 263 strutture (pari al 20,9%) hanno dichiarato di aver ricevuto scarse informazioni in merito alle procedure per contenere il contagio;
- 123 strutture (pari al 9,8%) hanno lamentato una mancanza di farmaci.
Fatta tale doverosa premessa, le procure di tutta Italia (soprattutto quelle di Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna, dove si sono registrati più decessi) stanno indagando sulle “morti sospette” e, dunque, ci vorrà del tempo per stabilire la verità investigativa.
Nel frattempo, i parenti delle vittime si stanno organizzano per chiedere chiarezza sui dubbi legati proprio alle difficoltà riscontrate ed espresse dalle RSA nel questionario dell’ISS. In Emilia Romagna, ad esempio, è nata una serie di comitati in città differenti, e coordinata dall’unica organizzazione denominata “Verità e giustizia per operatori e pazienti”.
In tema di risarcimento del danno, vale in parte ciò che è stato affermato nel paragrafo precedente con alcune lievi differenze dato che la RSA non è una struttura ospedaliera e chi ha assistito gli ospiti non erano per la maggior parte medici.
Il rapporto tra RSA e ospite (o più spesso con i parenti dell’ospite) è di natura contrattuale, dunque, l’eventuale risarcimento danni va chiesto alla struttura. Il contratto che si instaura è detto da “contatto sociale” in base al quale l’RSA si assume il compito di assistere e nutrire l’anziano che gli è stato affidato.
A differenza del caso degli ospedali, tra il personale della RSA e ospiti (o parenti dell’ospite) non si crea un contratto di natura extracontrattuale, ma semplicemente una responsabilità mediata dalla struttura.
In tale solco giuridico, viene da dire che a risponderne è esclusivamente la RSA a meno che dimostri che il personale incriminato abbia seguito con la diligenza dovuta tutte le prescrizioni e raccomandazioni fornite dalla dirigenza della struttura.
Risarcimento danni: quale natura del risarcimento?
Ammettendo che in sede giudiziale civile venga provata la responsabilità della struttura ospedaliera o della RSA, quale tipo di risarcimento può essere richiesto?
Di certo è un danno di natura non patrimoniale, ovvero non legato alla perdita di capacità reddituale (da danno emergente e/o lucro cessante).
All’interno del danno non patrimoniale vi è poi un’ulteriore distinzione tra danno biologico, danno morale e danno esistenziale.
In tali fattispecie, il danno che può essere richiesto, oltre a quello per la perdita del proprio caro, è quello biologico definito all’art. 138, comma 2, del codice delle assicurazioni come “la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
Dalla citata definizione si evidenzia come vi siano due componenti, una di natura psico-fisica e l’altra di natura relazionale.
Per definire il quantum del risarcimento, il giudice deve deliberare caso per caso e tenendo conto di entrambi gli aspetti. Al momento non è possibile fare previsioni sul suo ammontare poiché, come già ribadito, non vi è stata ancora alcuna sentenza né di merito né di legittimità.
Il risarcimento da danno biologico è trasmissibile agli eredi?
Infine, c’è un ultimo punto da approfondire: dato che nella maggioranza dei casi è il parente della vittima a chiedere il risarcimento e non il paziente guarito, il diritto al risarcimento è trasmissibile?
Quando si parla di trasmissibilità del risarcimento agli eredi ci si riferisce al cosiddetto “danno tanatologico”, ovvero quel danno in capo alla vittima di un evento nefasto, il quale, avendo capacità giuridica, può trasmetterlo agli eredi.
Condizione essenziale perché vi sia il danno tanatologico è che la vittima, tra l’evento lesivo che ha causato la morte ed il decesso, sia stata cosciente per un “apprezzabile” lasso di tempo nel corso del quale si siano potuti effettuare accertamenti medico-legali.
La ratio della condizione è che il danno si configura solo se la vittima ha potuto prendere coscienza del suo stato di salute generando in lui un danno morale. Nel caso in cui, invece, la morte sia improvvisa e la persona deceduta non abbia avuto alcuna coscienza di ciò che le stava accadendo, non si può configurare alcun danno morale.
La Corte di Cassazione ha più volte affermato il principio in base al quale il danno tanatologico sorge solamente se la vittima ha coscienza della sua situazione di salute e della sua possibile imminente morte, da cui deriva un danno morale.
Nel caso dei decessi per Coronavirus, si può certamente affermare che nella maggioranza dei casi, sia trascorso un certo lasso di tempo tra il ricovero in ospedale ed il peggioramento delle condizioni di salute fino al decesso. Dunque, in tale periodo, non solo sono stati effettuati esami diagnostici (come il tampone), ma certamente il paziente era pienamente cosciente della malattia e dei rischi connessi, optandosi dunque, allo stato, maggiormente per la tesi della trasmissibilità.
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