Sentenza shock: il redditometro è illegittimo!
La CTP di Catania ha recentemente adottato una posizione davvero eccentrica nei confronti del redditometro, ritenendolo illegittimo sotto vari profili
La Commissione Tributaria provinciale di Catania, nella sentenza indicata in oggetto[1], ha definito il redditometro uno strumento discriminatorio e lesivo della privacy dei cittadini, censurandolo tuttavia anche sotto altri profili.
A detta dei giudici siciliani, infatti, è discriminatorio in quanto non tiene conto delle indubitabili differenze che sussistono tra i contribuenti delle varie regioni d’Italia, sia in termini di potere di acquisto sia in termini di costo della vita, atteso che un conto è vivere in una grande metropoli del nord-Italia altro è vivere in un piccolo centro del meridione.
Inoltre, è considerato lesivo della privacy poiché consente di raccogliere dati sensibilissimi attinenti alla sfera più personale del contribuente, quali quelli alla salute e alle tendenze di consumo quotidiano. Per i giudici tributari, con questo sistema il Fisco si vedrebbe riconosciuto "il potere di raccogliere e immagazzinare ogni singolo dettaglio, dal più insignificante al più sensibile della vita di ciascun componente di un nucleo familiare, conferendo all’Agenzia delle entrate un potere che va manifestamente oltre quello della ispezione fiscale astrattamente consentito dall’art. 14, comma 3, della Costituzione, potere di cui non gode neppure l’autorità giudiziaria penale".
Interessante è poi la censura che i giudici muovono al requisito del redditto del "nucleo familiare", atteso che il D.P.R. 600/1973, all’art. 38, richiama espressamente i contribuenti senza far alcun cenno alle loro famiglie. Pertanto, sarebbe illegittimo quantificare le spese e i consumi effettuati dall’intero "nucleo familiare", pena l’adozione di una prassi contra legem.
Infine, un’ultima censura viene mossa sotto un profilo strettamente processuale, giacché per il contribuente sarebbe impossibile dimostrare di aver speso meno di quanto accertato dal Fisco mediante l’utilizzo di presunzioni ancorate alle risultanze ISTAT. Infatti, egli sarebbe messo dinanzi alla c.d. probatio diabolica ossia avrebbe l’onere di dimostrare ciò che non ha fatto e, in questo caso specifico, ciò che non ha acquistato, tutto ciò in palese violazione del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione, nonché del principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3, co. 1, della Costituzione.
E’ indubitabile che si tratti di una sentenza audace e d’impatto, ancorché isolata nel panorama giurisprudenziale, tuttavia sarà interessante osservare se la stessa impostazione verrà accolta da altri giudici di merito e dai giudici di legittimità.
[1] Commissione Tributaria Provinciale di Catania, sent. n. 473/13/16.
A detta dei giudici siciliani, infatti, è discriminatorio in quanto non tiene conto delle indubitabili differenze che sussistono tra i contribuenti delle varie regioni d’Italia, sia in termini di potere di acquisto sia in termini di costo della vita, atteso che un conto è vivere in una grande metropoli del nord-Italia altro è vivere in un piccolo centro del meridione.
Inoltre, è considerato lesivo della privacy poiché consente di raccogliere dati sensibilissimi attinenti alla sfera più personale del contribuente, quali quelli alla salute e alle tendenze di consumo quotidiano. Per i giudici tributari, con questo sistema il Fisco si vedrebbe riconosciuto "il potere di raccogliere e immagazzinare ogni singolo dettaglio, dal più insignificante al più sensibile della vita di ciascun componente di un nucleo familiare, conferendo all’Agenzia delle entrate un potere che va manifestamente oltre quello della ispezione fiscale astrattamente consentito dall’art. 14, comma 3, della Costituzione, potere di cui non gode neppure l’autorità giudiziaria penale".
Interessante è poi la censura che i giudici muovono al requisito del redditto del "nucleo familiare", atteso che il D.P.R. 600/1973, all’art. 38, richiama espressamente i contribuenti senza far alcun cenno alle loro famiglie. Pertanto, sarebbe illegittimo quantificare le spese e i consumi effettuati dall’intero "nucleo familiare", pena l’adozione di una prassi contra legem.
Infine, un’ultima censura viene mossa sotto un profilo strettamente processuale, giacché per il contribuente sarebbe impossibile dimostrare di aver speso meno di quanto accertato dal Fisco mediante l’utilizzo di presunzioni ancorate alle risultanze ISTAT. Infatti, egli sarebbe messo dinanzi alla c.d. probatio diabolica ossia avrebbe l’onere di dimostrare ciò che non ha fatto e, in questo caso specifico, ciò che non ha acquistato, tutto ciò in palese violazione del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione, nonché del principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3, co. 1, della Costituzione.
E’ indubitabile che si tratti di una sentenza audace e d’impatto, ancorché isolata nel panorama giurisprudenziale, tuttavia sarà interessante osservare se la stessa impostazione verrà accolta da altri giudici di merito e dai giudici di legittimità.
[1] Commissione Tributaria Provinciale di Catania, sent. n. 473/13/16.
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