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Suicidio derivante da mobbing: il nesso causale c’è


In questo articolo trattiamo il delicato tema del suicidio derivante da mobbing
Suicidio derivante da mobbing: il nesso causale c’è

Definizione di Mobbing

Nel trattare questo argomento appare doveroso e opportuno specificare il concetto di Mobbing. Si intende con tale concetto, una serie di atti protratti nel tempo, posti in essere dal datore di lavoro o dai componenti del gruppo di lavoro, caratterizzati da persecuzione, discriminazione o emarginazione, al fine di escludere la vittima dal gruppo.

Mobbing: le conseguenze dannose del fenomeno

In prima battuta, questa forma di violenza può colpire il patrimonio della persona diminuendo anche sensibilmente i benefici che egli trae dal rapporto lavorativo: il danno, in tal caso, può spaziare dalla semplice perdita di chance, intese come prospettive di maggior guadagno, progressione di qualifica ecc.

Ma il danno peculiare del soggetto vittima del mobbing è il disagio psico-fisico.

La prima conseguenza del mobbing è la perdita, da parte della vittima, della capacità lavorativa e della fiducia in se stesso. Inoltre il disagio non può non ripercuotersi anche sulla serenità dell’ambiente famigliare.[1]

Una delle conseguenze più gravi è l’innescarsi di una spirale che, attraverso un crescendo di disturbi, può condurre sino al suicidio. In tal caso ad agire contro il mobber possono essere gli eredi oppure i congiunti della vittima, i quali però devono aggirare un grande scoglio: dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del mobber e il suicidio del de cuius.

Elementi costitutivi del mobbing: dalla sistematicità alla durata degli atti posti in essere

Elementi essenziali per potersi configurare come mobbing, sono necessari la sistematicità e la durata. I danni derivanti da ciò, che potrebbero portare a un malessere fisico o mentale del lavoratore, con conseguenze sullo stesso, sono considerati al pari delle malattie professionali. Altro elemento costitutivo è il nesso di causalità tra le condotte poste in essere e il pregiudizio della vittima.

Mobbing: il nesso di causalità accertato dalla Cassazione

Nella situazione di cui sopra, e cioè quella del suicidio, è intervenuta la Cassazione in un caso avente ad oggetto il suicidio di un lavoratore, che, in seguito all’intossicazione da monossido di carbonio verificatasi a causa del difetto dell’impianto di riscaldamento presente sul posto di lavoro, aveva sviluppato un grave stato di depressione.

In tal caso la Suprema Corte ha applicato il principio della causalità umana, affermando che il suicidio non rappresenta un evento idoneo a interrompere il nesso di causalità tutte le volte che l’illecito ha determinato nel soggetto leso dei gravi processi di infermità psichica. Per quanto riguarda i danni risarcibili invece sussiste il principio risarcitorio del danno da uccisione.

Come difendersi dal mobbing? La Cassazione conferma il nesso di causalità

La domanda che sorge spontanea è come dimostrarlo ovvero la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore è riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, ovvero ad una condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro?

Il mobbing nella maggior parte delle volte sfocia in vari atteggiamenti quali l’ingiuria o diffamazione. L’importante dunque è specificare e provare il nesso causale tra lo stato psico-fisico del lavoratore e la condotta spregevole del datore di lavoro nei suoi confronti.

L’elemento caratterizzante del mobbing va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti ma nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi li subisca e che poi spetterà al giudice accertarli o meno.

Si è espressa su tale concetto Corte di cassazione, sezione Lavoro, con ordinanza 10 novembre 2017 n. 26684.

Per mezzo della recente ordinanza n. 24833 del 4 ottobre 2019 la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) è nuovamente intervenuta in materia di mobbing sul luogo di lavoro e sui presupposti per l’ottenimento di una tutela in sede giurisdizionale da parte del lavoratore, cogliendo l’occasione per richiamare l’oramai consolidato orientamento abbracciato dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni e con riferimento, in particolare, al piano probatorio.

Nel caso di specie, una lavoratrice ricorreva innanzi al giudice del lavoro per vedersi ristorare pretesi danni da mobbing.

Nello specifico, quest’ultima era stata addetta - nel corso dell’ultima fase del suo rapporto lavorativo alle dipendenze di una società - a mansioni ben più elevate rispetto al proprio livello di inquadramento contrattuale, dacché aveva ritenuto che una simile scelta da parte della società datrice si prestasse ad assumere i tratti della persecutorietà e della vessatorietà.

Inoltre una prima riflessione sul mobbing è doverosa. In violazione dell’art.2103 del codice civile infatti è previsto espressamente che il prestatore di lavoro deve essere destinato alle mansioni per le quali è assunto. La Suprema Corte, infatti, ha specificato che la modifica in peius delle mansioni funzioni del lavoratore è illegittima salvo che sia stata disposta con approvazione del dipendente. In caso contrario potrebbe essere configurato come mobbing tale atteggiamento e pertanto risarcire al lavoratore il danno psicologico e successivamente ed eventualmente fisico che tale comportamento susciterebbe nella mente del prestatore di lavoro.

Ad oggi possiamo affermare che vi sono innumerevoli casi di mobbing sul lavoro ma fortunatamente la legge si è mossa e si sta muovendo per affrontare tale fenomeno e fornire ai soggetti la più ampia tutela e la più ampia fiducia nei confronti della legge.

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